Riccardo Di Segni
da:
Gianni Ascarelli, Daniela
Di Castro, Bice Migliau, Mario Toscano (a cura di), Il Tempio
Maggiore di Roma, Umberto Allemandi
&
C., Torino,
2004
Gli ebrei italiani costituiscono per molti aspetti un’isola nel
mondo ebraico. Lo stesso nome della terra che li ospita da
ventidue secoli è interpretato, come se fosse una parola
ebraica, nel senso di
I-tal-y.a,
“isola della rugiada divina”. Ciò che isola in particolare gli
ebrei italiani è una tradizione rituale originaria, non
condivisa in altre parti del mondo. E’ noto che la maggioranza
degli ebrei si distingue in due gruppi principali, i sefarditi e
gli ashkenaziti. I nomi dei due gruppi derivano da toponimi
biblici reinterpretati, riferiti rispettivamente a Spagna e
Germania (“Alemagna”), le due terre dove nel medioevo si
formarono i centri culturali più fiorenti per i due gruppi.
Oggi, molto semplicemente, i sefarditi sono per la maggioranza
gli ebrei che provengono da paesi islamici, e gli ashkenaziti
quelli che provengono dai paesi cristiani, ma è una
semplificazione rozza, che non tiene conto delle complessità dei
movimenti migratori e della presenza nello stesso territorio di
diversi gruppi. Come terra di passaggio continuo, l’Italia ha
conosciuto tutte le varianti etniche e rituali possibili, ma
insieme a queste ha mantenuto, con orgogliosa caparbietà, la
fedeltà al suo stile originale. Uno stile che significa prima di
tutto un formulario di preghiera con le sue differenze
specifiche; un complesso di stili, di recitazioni e canti
liturgici originali; una specifica tradizione giuridica e
ritualistica; più in generale, lingue e dialetti
giudeo-italiani, tradizioni folcloristiche, aspetti artistici
religiosi peculiari.
Il rito o minhag
italiano è uno dei diversi riti presenti nel panorama liturgico
ebraico mondiale, minore per diffusione ma non per importanza.
Secondo una teoria critica in parte superata, esistono due
gruppi principali di riti, che originano distintamente dalla
terra d’Israele e dalla Babilonia. In realtà tutti i riti sono
passati per la Babilonia, dove sono stati ordinati in uno schema comune di base, il
Seder Rav’Amram del IX
secolo. Le differenze consistono in varianti più o meno
significative del testo principale e nella presenza di
composizioni liturgiche aggiuntive. Molto schematicamente, il
gruppo di riti derivante dalla terra d’Israele comprende il rito
greco (o di Romania), che fino a poco fa sopravviveva solo a
Corfù, quello italiano, quello delle comunità francesi
settentrionali sopravvissuto in tre nuclei piemontesi (Asti,
Fossano, Moncalvo) da tempo estinti, e quello tedesco, diviso a
sua volta in un ramo occidentale (Ashkenaz)
e uno orientale (Polin).
Il gruppo babilonese ha dato origine al rito sefardita, con le
varianti nordafricana e catalano-aragonese, al rito provenzale e
a quello yemenita. Emerge da questa classificazione il dato
della stretta parentela tra il rito italiano e quello tedesco,
almeno per quanto riguarda i testi (non le forme di
recitazione); parentela che forse si spiega con la direzione dei
flussi migratori altomedievali dall’Italia alla Germania, almeno
per quanto riguarda le classi colte e influenti.
Il rito italiano ha diversi nomi, come
minhàg qahal qadosh
italiani (“della sacra comunità degli italiani”), o
minhag lo’ez o lo’azim
(letteralmente: “di chi parla una lingua straniera”,
probabilmente il latino), o
minhàg
benè Roma
(“dei figli di Roma”), a indicare la centralità originale di
Roma. Attualmente è presente in alcune comunità italiane,
esclusivamente (come a Torino) o insieme a molti altri riti
(come a Milano); in molte comunità italiane è scomparso, per
l’assottigliamento
demografico,
soccombendo davanti alla
pressione di riti più rappresentati (come a Venezia
e Firenze). Un tempo esistevano sinagoghe italiane a Salonicco.
Oggi è vitale una sinagoga di rito italiano a Gerusalemme (dove
il rito è chiamato italqì).
Roma, capitale d’Italia e del rito italiano, sede della comunità
ebraica più popolosa d’Italia e del nucleo di rito italiano più
cospicuo del mondo, è ovviamente la custode più gelosa del rito.
La sede naturale principale per la conservazione e la
trasmissione del rito è il Tempio Maggiore, edificio monumentale
che fa di questa funzione uno dei suoi elementi costitutivi
originali. Ma se si esamina con attenzione il rito oggi in uso
in questo Tempio, le sorprese non mancano, nel senso che la sede
che dovrebbe essere per definizione la più fedele depositaria
dell’antica tradizione ha assorbito influssi di tutti i tipi,
portando a deformazioni anche sostanziali del nucleo liturgico
originario.
I fattori che giustificano questo processo sono molteplici, e
molto sommariamente se ne possono qui indicare i più
significativi:
- L’evoluzione naturale del rito
italiano. I riti non sono corpi rigidi e immodificabili, ma sono
soggetti a continue variazioni. Se si fa un confronto
sistematico fra le tradizioni antiche come compaiono negli
scritti delle autorità medievali e gli usi locali e attuali si
scoprono piccole diffuse varianti. Alcune originalità sono dei
misteri storici. Per fare un esempio, nei giorni in cui si
leggono due diversi brani della
Torà usando due sefarim,
l’uso romano è di chiamare alla lettura del secondo
sefer due distinte persone di cui solo l’ultima legge l’haftarà,
il brano profetico aggiuntivo. Questo uso non ha riscontro negli
antichi codici di rito italiano, né nei principali codici
rituali, e l’unica fonte autorevole che l’attesta è un rabbino
algerino (Yehuda Ayash) della prima metà del Settecento. Come si
sia creato questo collegamento, e si sia mantenuto un uso così
fortemente originale e ben difeso, resta per ora inspiegabile.
Ci sono brani liturgici che non
vengono più letti, altri di cui si legge solo il brano iniziale
e finale, altri invece provenienti da altri riti che sono stati
introdotti da cantori e rabbini non romani. Spesso nella
riduzione ha giocato semplicemente la necessità di rendere più
brevi le preghiere.
Ma sono intervenuti altri fattori. La tradizione di canti
liturgici è stata attentamente trasmessa da maestro ad allievo,
ma in alcuni casi alcune melodie rare o difficili si sono perse,
o sono state deformate nel percorso della memoria. Una poesia
liturgica di cui non si conosce più la melodia originale rischia
di cadere in disuso. E ancora: dalla prima metà dell’Ottocento a
Roma non c’è più stato un Rabbino Capo romano. Ognuno dei nuovi
venuti ha necessariamente portato con sé le tradizioni a lui più
care del suo luogo di origine e, grazie all’influsso e al potere
di cui disponeva, ha cercato di inserirle nel rito locale. Il
risultato di queste infiltrazioni continue è stata la presenza
di “corpi estranei” proprio nei momenti più solenni e suggestivi
del culto.
- La riduzione degli oratori
esistenti dai cinque originali a due, uno il Tempio monumentale
di rito italiano, l’altro il Tempio spagnolo, ha comportato una
compressione di riti e diverse comunicazioni tra i due
principali sistemi. L’aspetto più originale del rito italiano
che è andato perso è stata la cantillenazione tradizionale della
Torà, momento centrale della celebrazione liturgica. La tradizione
italiana conserva un suo modo di lettura tanto semplice quanto
elegante. Oggi per sentire questo tipo di lettura bisogna andare
a Torino o Milano, dove per altro c’è qualche differenza
rispetto all’antico modello romano. A Roma nel Tempio Maggiore,
per motivi ignoti, la lettura è sì di tipo romano, ma romano
sefardita. La melodia romana riaffiora nostalgicamente soli in
casi speciali, nella lettura del secondo
sefer in occasioni
speciali, o nel rito domestico della
mishmarà. Un altro esempio dell’influsso sefardita è l’uso esclusivo
delle selichot
(preghiere di supplica dei giorni penitenziali) di questo rito,
anche quando, nelle grandi occasioni delle vigilie, le
selichot hanno luogo
al Tempio Maggiore.
- Altro importante fattore di
cambiamento è stato il ruolo rappresentativo e l’aspetto
monumentale dell’edificio, che, in analogia a quanto è avvenuto
in altre capitali del mondo occidentale, è diventato il luogo di
rappresentanza della comunità locale e anche nazionale, dove
frequentemente accorrono per diversi motivi le autorità civili e
(da qualche tempo) quelle religiose non ebraiche. Tale ruolo ha
imposto l’adozione di una serie di formalità cerimoniali: gli
abiti del personale di culto, come rabbini, cantori,
inservienti; gli arredi; le gestualità: come certi cortei
rabbinici, il saluto all’aròn
fatto alla fine o all’inizio di certe funzioni ecc. In alcuni
casi, con un meccanismo tipico di alcune manifestazioni
religiose, certe istituzioni, malgrado fossero di introduzione
recente, si sono rapidamente congelate e resistono lentamente ai
cambiamenti di costume: si pensi all’abbigliamento del personale
e a quelle che appaiono ora stranezze, come il cilindro degli
shammashim (gli
inservienti). In altri casi, invece, il cambio delle mode è
riuscito a prevalere: si pensi ad esempio che fino agli inizi
degli anni sessanta era impensabile portare
sefer senza un
cappello tipo Borsalino, oggi nessuno lo pretende più.
Il Tempio Maggiore
ha creato le sue cerimonie, dando un assetto coreografico a ciò
che già esisteva (come la cerimonia nuziale) o a riti di nuova
introduzione, come le cerimonie di benedizione delle coppie per
le nozze d’argento e d’oro o la benedizione del
bar mitzwà, il ragazzo
giunto alla maggiore età, e soprattutto della
bat mitwà, la ragazza
maggiorenne. La monumentalità dell’edificio, e la rigidità della
pompa, ha raffreddato l’originale calore di riti (peraltro
relativamente recenti) come le
haqqafot di
Simchat Torà, mentre ha dato uno spazio degno per l’afflusso di
massa ai riti di
Osha’ana Rabbà.
Una
produzione musicale ininterrotta ha accompagnato la vita del
nuovo edificio, caratterizzato dalla presenza di un organo
(strumento visto sempre con un certo sospetto dalla tradizione
ortodossa più rigida). In linea con il gusto musicale operistico
del primo Novecento, si sono moltiplicate le produzioni, e molte
sono entrate nella pratica comune, dando un’ulteriore
originalità al rito locale. In questa linea, con strana
permeabilità, sono state introdotte musiche israeliane recenti,
che però sono state riadattate nella solennità retorica del
gusto operistico monumentale: un esempio è la
Yerushalaim shel zahav,
canto della guerra dei sei giorni, che nei matrimoni viene
suonato con accompagnamento di organo.
Tutti questi
dati possono aiutare anche a chiarire un punto speciale, quello
dell’appartenenza del Tempio Maggiore all’ortodossia. Nella sua
impostazione essenziale il Tempio Maggiore esprime i tratti
dell’ortodossia: preghiere rigorosamente in ebraico, conformi al
formulario antico (salvo piccole riduzioni, varianti, aggiunte),
condotte nei tempi e nei modi prescritti; divisione dei sessi
sancita anche da strutture ambientali. Altri segni, permanenti o
transitori, possono aver intaccato per breve o lungo tempo
questa caratteristica essenziale, ma la loro importanza non è
stata mai troppo determinante: la pianta monopolare; l’uso
dell’organo (che in Italia comunque preesisteva alla Riforma, e
che ormai è limitato a occasione commemorative speciali e alle
nozze, mai al
sabato e giorni festivi); l’uso del microfono nei giorni festivi
(cosa che non si fa più da anni); l’impostazione di certe
cerimonie pubbliche o familiari, comunque soggetta a
variabilità; l’adozione di riti “sionisti”, come la preghiera
per lo Stato d’Israele, o la festa di
Yom ha’atzmauth.
Il rito del Tempio Maggiore di Roma rappresenta insomma,
nella complessità dei suoi aspetti, un impressionante
documento di vita ebraica, di grande interesse
multidisciplinare per gli studiosi e allo stesso tempo di
strana e potente suggestione.
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