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IL POGROM DIMENTICATO

Marcello Ortona

da: Diario della settimana, anno II, n.35, 10-16 settembre 1997

 

     Chi poteva immaginare che quell’anno, che era incominciato più o meno come gli altri del primissimo dopoguerra tutti difficili ma senza scosse particolari, avrebbe segnato la mia vita, sconvolgendola come per effetto di un terremoto? A due mesi dalla sua fine, nello spazio di tre giorni, il 1945 si è presentato con due volti diametralmente contrapposti: uno luminoso sul piano professionale; l’altro terrificante sotto il profilo umano. E’ stato l’anno del primo pogrom antiebraico nella storia di Tripoli; come ebreo certamente l’anno più doloroso ed oscuro della mia vita. Ma fu anche l’anno in cui fui chiamato a dirigere il “Corriere di Tripoli”. Nel mio intimo ero orgoglioso in quel 1° novembre del 1945 di prendere il posto che era stato di Renato Mieli fin dal 23 gennaio 1943, dal giorno stesso della liberazione di Tripoli da parte dell' VIII Armata di Montgomery. Anche se pubblicato dall’Amministrazione militare britannica (Bma), quindi da un’autorità straniera e per giunta militare, il Corriere era un quotidiano italiano sotto ogni aspetto. Era scritto in italiano, redatto e diretto da italiani, stampato in una tipografia italiana, ma requisita, da tipografi italiani; era destinato in prevalenza ai lettori nostri connazionali, ma anche alle altre minoranze europee (inglese, francese, greca e maltese) residenti a Tripoli. Allora io avevo 23 anni. Ricevere un incarico così delicato a quella età sarebbe stato, in tempi normali, un successo, una conquista esaltante. Invece in quei giorni di lutti senza fine e di solo sangue la nomina suscitò in me una sensazione di assoluta indifferenza. La soddisfazione non durò che poche ore. Mi resi subito conto della responsabilità che mi era caduta sulle spalle: mi sentivo schiacciato non dal solito peso, ma da un macigno grosso come una casa. Già era un problema, e non indifferente, dirigere il giornale con equilibrio in quelle condizioni eccezionali: non solo si era di fronte allo sconvolgimento totale dell’ordine pubblico: ma si era verificata una situazione di emergenza politica che richiedeva la più attenta sensibilità di giudizio e di comportamento. Se a questo elemento veniva aggiunta la mia speciale identità etnica, si può facilmente immaginare quale sforzo psichico, e non solo fisico, sia costato assolvere l’incarico, con serenità di spirito certamente no, quanto meno con la dovuta obiettività. Io non potevo comportarmi diversamente. L’imparzialità più assoluta era parte del mio dovere.

     L’anniversario della Dichiarazione Balfour. Un piccolo passo indietro. Il 2 novembre del 1945 era l’anniversario della Dichiarazione Balfour del 1917. Si trattava di una lettera “storica”, di poche righe, con la quale il governo di Sua maestà britannica prometteva agli ebrei della diaspora l’appoggio per la costituzione di un “focolare” ebraico in Palestina. Quel giorno dei disordini scoppiarono al Cairo e ad Alessandria. La notizia dei tumulti rimbalzò in poche ore a Tripoli come in tutto il mondo arabo, la tensione salì pericolosamente, ma nulla faceva presagire che di lì a 48 ore la città sarebbe finita nel caos più completo, in un crescendo di assalti e di crudeltà inaudite. Per tre giorni una follia omicida e distruttiva sconvolse Tripoli ed altre località della provincia. In Tripolitania si salvò solo Jefren, una cittadina sulle montagne del Gebel alle porte del Sahara, forse perché abitata non da arabi ma da popolazione berbera. E, salvo pochi casi, sfuggirono al massacro anche le piccole comunità ebraiche sparse un po’ ovunque in Cirenaica. Il merito della “esenzione” va attribuito all’intervento protettivo del Senusso Idris, molto religioso, diventato poi, con l’indipendenza del 1952, primo ed ultimo re di Libia.

     Quel pogrom (altri ne seguiranno negli anni, ma di dimensioni ed intensità minori), segnò per sempre la fine di un rapporto di mutuo rispetto e di secolare amicizia tra ebrei e arabi che durava ininterrottamente da oltre duemila anni: la comunità ebraica si era insediata in quelle terre prima ancora che arrivassero le legioni di Roma. Il taglio era stato troppo profondo. E nonostante i tentativi, falsi ed ipocriti, svolti dai notabili delle due parti sotto l’egida burocratico-formale ma non meno farsesca dell’autorità occupante, la ferita non si rimarginò più. Per secoli non era mai corso del sangue tra le due etnie. Ma dopo il pogrom, alla fiducia di un tempo era subentrata la diffidenza, all’amicizia l’odio, a volte scoperto, altre volte soffocato, in ogni caso cresciuto e stabilizzato a livelli di guardia. Ormai il deterioramento delle relazioni fra le due comunità, una volta fraterne, era totale. Aveva colpito al cuore ogni settore della vita cittadina e del paese. Il solco che si era aperto tra arabi ed ebrei non era più colmabile. Così è stato a Tripoli dopo quel 1945. Così sarà cinquant’anni dopo a Sarajevo. Così è avvenuto e avverrà in tutte quelle terre, dove sciovinismi esasperati o fanatismi integralisti, più distruttivi della droga più pesante, annebbiano la mente degli uomini esaltando solo l’odio e la violenza.

     Dopo 3200 anni un altro segno sugli usci. I tumulti ebbero inizio nel tardo pomeriggio di domenica 4 novembre. Le prime aggressioni si verificarono alla stessa ora, simultaneamente e in più punti della città. Furono attaccate soltanto case di ebrei e negozi di ebrei. Questa circostanza conferma che i disordini erano stati organizzati e coordinati in anticipo, si dice da piccoli intellettuali che avevano studiato nelle università del Cairo abbeverandosi alla fonte del nazionalismo panarabo più acceso. L’ipotesi è avvalorata anche dal fatto che il giorno prima furono notati arabi ben vestiti (forse gli stessi organizzatori) segnare con il gesso le porte di tutte le case e botteghe con le scritte in lingua araba “ebreo”, “italiano”, “arabo”. Durante i disordini alcuni testimoni italiani videro gruppi di giovanottini eleganti fermare i pochi passanti che erano in giro e domandare loro la carta d’identità. Se il possessore era italiano o arabo veniva lasciato proseguire indisturbato; se era invece ebreo non poteva sfuggire: era in trappola e cadeva sotto i colpi di bastoni e mazze di ferro, in molti casi anche di lunghi coltelli e pugnali.

     In quel tardo pomeriggio di autunno non pioveva, ma il tempo era uggioso, faceva molto freddo e tirava un gran vento. Io non ero ancora uscito per andare al giornale. Di solito mi mettevo in cammino verso le sei. Ad un tratto sentii delle urla provenire da Corso Vittorio Emanuele, sempre più forti, più rumorose. Noi abitavamo all’ultimo piano del palazzo della Previdenza sociale. Con mio padre mi affacciai in balcone. Mia madre invece, sentendo quegli schiamazzi, si spaventò da morire, corse in camera sua e non si fece più vedere. Così l’ho sempre conosciuta: soffriva di palpitazione per ogni minima emozione. Fu allora che con i miei occhi ho assistito, inorridito ed impotente, a una scena che non dimenticherò mai; la più spaventosa che abbia mai visto in vita mia. Un vecchietto piegato in due, coperto da qualcosa che più che un cappotto mi sembrò essere un mantello nero perché svolazzava gonfiato dal vento, correva o tentava di correre muovendosi a zig e zag da un lato all’altro del marciapiede. Era inseguito da una turba di ragazzini sghignazzanti che lo bersagliavano con lanci di pietre al grido “he he el jud” (che muoia l’ebreo). Dopo pochi metri il pover’uomo cadde per terra e non si rialzò più. Era stato finito, lapidato. La similitudine potrà apparire raccapricciante e forse irrispettosa ma ricordando a distanza di tanti anni quell’episodio così “meschino”, mi sembra di vedere in quella povera vittima innocente un topolino terrorizzato inseguito da un branco di gatti inferociti. Per mia fortuna non sono stato testimone oculare di altre nefandezze. Mi è molto difficile descrivere quei giorni così terribili. Ero inquieto, sconvolto, come tutti del resto. Doris non era più uscita di casa. Per dei giorni non ci siamo più incontrati. Ci vedevamo e ci salutavamo dai balconi perché abitavamo in due palazzi uno di fronte all’altro, ma sempre per pochi minuti. Io non uscivo più a piedi, anche se il Corriere era a due passi da casa. Trascorrevo le mie ore o qui o al giornale, dove venivo accompagnato con una jeep da un ufficiale britannico redattore del “Tripoli Times”. Noi del Corriere e gli inglesi avevamo gli uffici in due ali diverse di uno stesso enorme appartamento. Tornando a quel pomeriggio del 4 novembre, era già vicino il tramonto, il presidente della Comunità, informato che gli avvenimenti stavano prendendo una brutta piega, non perse tempo e corse alla Stazione centrale di polizia; ma il piantone di guardia lo informò che, data la giornata festiva, ‘tutti gli ufficiali” (ufficiali britannici) non erano in servizio; quanto agli agenti erano “tutti” fuori sede, per cui non era possibile prendere contatto né con gli uni né con gli altri.

     Carta bianca per tre giorni. Le notizie sui primi eccidi e incendi fecero rapidamente il giro della città. Per tutti noi ebrei la notte fu lunga, interminabile. Passò, come D-o volle, insonne per quasi tutte le case, con l’anima in pena e con gli occhi sbarrati a guardare il soffitto, al pensiero del pianto e dello strazio per i primi lutti. Per tutta la città, in quella nuova, nella vecchia, alla Hara, il silenzio era assoluto, rotto dal raro passaggio di qualche Land Rover della polizia. Ma era un brutto silenzio, cupo, buio, premonitore del peggio. Al mattino di lunedì, appena fu giorno, i disordini divamparono di nuovo, questa volta estendendosi in poche ore a tutti i punti della città, anche ai più lontani, sia nella cerchia dei quartieri nuovi che in quelli vecchi. Le aggressioni e i saccheggi, gli stupri, gli incendi furono ovunque. Nessuna zona si salvò. In quel 5 di novembre l’unico provvedimento adottato dalle autorità fu la proclamazione del coprifuoco; di esso venne dato avviso all’ultim’ora, poco prima che facesse buio, con manifesti murali e a mezzo di altoparlanti montati sulle macchine della polizia. Ne parlerò più diffusamente più avanti. Il giorno più tremendo fu martedì. La violenza era ormai all’apice. Tripoli non era più una città, era l’inferno. Nello spazio di sole ventiquattr’ore aveva perduto il suo volto civile. Era stata trasformata in una bolgia dantesca. Ma mercoledì 7 non fu da meno. Procedeva secondo i piani un vero e proprio pogrom premeditato, di qualità primitive, di proporzioni spaventose. Nell’orrore della carneficina la furia degli aguzzini, se non altrettanto scientifica, non è stata meno bestiale di quella nazista. A Tripoli le aggressioni più gravi si verificarono nella città nuova dove, a differenza del ghetto, le famiglie ebraiche vivevano in case isolate, spesso lontane l’una dall’altra. Fra i tanti casi ne devo ricordare uno per la sua incredibile ferocia. Ad una donna prossima al parto che abitava al “Colosseo”, un palazzo così chiamato per la sua conformazione architettonica, fu tagliato il ventre e il bambino che teneva in grembo fu lanciato per strada, giù dal balcone. Il ghetto era una piccola città nella città vecchia dove almeno ventimila ebrei (di loro non pochi erano sulla soglia della miseria) vivevano e lavoravano gomito a gomito in un dedalo intricato di piazzette e di vicoli strettissimi. Ma la resistenza di quella gente fu strenua e gli assalitori, nonostante l’impeto rabbioso e la superiorità di numero, non riuscirono a far breccia ed a penetrare nella cittadella. Se quegli assalti non fossero falliti, è difficile immaginare quanto alto sarebbe stato il bilancio delle vittime. In provincia, nella notte tra martedì e mercoledì, eccidi in massa avvennero, tra crudeltà e sevizie inaudite, a Zavia e a Zanzur. Qui, in particolare, dove vivevano 120 ebrei, ne furono massacrati 40. All’Amrus, il quartiere ebraico di Suk el Giuma, a pochi chilometri da Tripoli, gli assassini dopo averle uccise infierirono barbaramente sulle loro vittime. Le cosparsero di benzina o di petrolio, poi appiccarono il fuoco. Bombe a mano furono lanciate proprio a Suk el Giuma contro la Sinagoga e alcune case. A Kussabat, non una donna fu risparmiata; tutte, anche le più anziane, subirono violenza. In qualche caso furono sterminate intere famiglie, dal nonno all’ultimo dei nipotini, trucidate tra torture di impensabile crudeltà. Mutilazioni furono constatate in più parti dei loro corpi. Ma proprio a Kussabat, alcuni ebrei - per la verità pochi - pur di aver salva la vita, abiurarono la religione dei padri convertendosi all’Islam.

     “Very urgent – top secret”. Nei quattro giorni di pogrom e la stessa operazione si è ripetuta nei giorni successivi, verso le dieci di sera da un motociclista venivano recapitati al giornale dei plichi sigillati con la stampiglia “very urgent - top secret”. Si poteva capire l’urgenza, non la segretazione. In quelle buste c’erano i comunicati ufficiali emanati, indifferentemente, o dall’autorità di governo o dal quartier generale della polizia. Portavano le notizie sui disordini della giornata, poche righe stringate, asettiche, con il “conto ufficiale” dei morti e dei feriti, seguito dall’elenco dei danneggiamenti più importanti. Sono sempre ridotte all’osso, in tutti i paesi del mondo, le notizie “ufficiali” quando devono riferire di tumulti o di disastri, ma soprattutto di stragi. Naturalmente questi comunicati avevano già il loro spazio riservato che li aspettava sulla prima colonna di una prima pagina che, a quell’ora, era già in fase di avanzata composizione. Quando aprivo quelle buste, di un giallino sbiadito ma nefasto, le mani mi tremavano. Perché toccava a me, primo ebreo, sapere quanti altri ebrei erano stati fatti a pezzi nelle ultime 24 ore. E mentre le scorrevo, quelle quattro righe, avevo di fronte il volto rosso e nero della strage, vedevo l’assassinio di un vecchio malato che moriva dissanguato senza la forza di un lamento, sentivo le urla disperate di spose bellissime appena incinte, il pianto desolato di bambini ancora in fasce, tutti ebrei come me, tutti fratelli miei. Quella lettura serale, che era inevitabile perché non potevo delegarla ad altri, con il passar dei giorni, era diventata una specie di condanna, uno spettro che mi tornava continuamente davanti agli occhi, senza che riuscissi a liberarmene. E ogni volta un brivido mi scorreva lungo la schiena. Mi veniva da piangere, ma non potevo. Rientravo a casa protetto dal coprifuoco, non prima dell'una, dopo aver vistato l’ultima bozza passata al torchio. Anche se per la tensione accumulata e per le energie che avevo consumato mi sentivo a pezzi, completamente svuotato, prender sonno era diventato un problema. Vedevo passare le ore una dopo l’altra, ed ero sempre sveglio. Poi mi addormentavo verso le cinque o le sei quando l’alba era già vicina.

     Si respirava il silenzio. Al giornale si lavorava sotto una cappa di piombo per la tensione, che fu sempre altissima, e anche per la paura. Perché non dirlo? Non c’era da vergognarsi: di fronte al terrore non c’è eroismo che tenga. Anche il coraggio, quello più insensato, va a farsi benedire. In tipografia, più nessun dialogo tra noi; rumoroso, vivace, spesso allegro come era di solito. Facce scure e solo poche parole, quelle strettamente indispensabili: “Per favore, ci son queste tre righe da ricomporre; dov’è la bozza della terza? E’ stata già corretta?”. A parte il ticchettio delle linotype e il dolce fruscio delle rotative (quanta passione per quel mestiere e che nostalgia...) si respirava il silenzio, quasi fossimo in chiesa. Eppure, nonostante l’atmosfera così pesante, grazie all’impegno forte di tutti i redattori ed i tipografi - mi volevano bene e devo dire che li ho sempre avuti fraternamente vicini - riuscii a tener duro ed il giornale continuò le sue pubblicazioni, regolarmente. Uscì ogni mattina di quei disgraziati giorni.

     Le armi del massacro. “Per compiere il massacro - si legge in una relazione ufficiale della Comunità di Tripoli - gli assaltatori avevano fatto uso delle armi più disparate: coltelli, pugnali, randelli, sbarre di ferro, rivoltelle, e perfino bombe a mano. In generale le vittime venivano prima colpite alla testa con un corpo contundente; poi, una volta stramazzate al suolo, venivano finite a coltellate o a pugnalate e spesso sgozzate”. Soltanto il mercoledì, a tarda sera, fu proclamato lo stato di emergenza. Fu disposto dall’esercito. “Vietati gli assembramenti, vietato il possesso di armi o di corpi contundenti. Corte marziale e processi per direttissima per i trasgressori”. L’ordine era finalmente ripristinato. I tumulti cominciarono così a scemare; ma lasciavano dietro di loro una lunga scia di sangue e di disperazione.

     Le stime sui morti, il servizio funebre. Le stime sul numero dei morti non concordano: ufficialmente 167, ma secondo altre fonti, più vicine alla realtà, sono state 300 o addirittura 350. Centinaia e centinaia di feriti, molti i bambini, ricoverati negli ospedali di Tripoli e di Misurata, dove i medici e gli infermieri italiani, dai primari all’ultimo portantino, si prodigarono, con straordinaria generosità, al limite delle forze 24 ore su 24. Ricordo che i funerali delle vittime si svolsero al buio, sotto coprifuoco, lungo un percorso “blindato” da un cordone di truppe con baionetta innestata, senza la presenza di nessun parente. Il servizio religioso fu officiato da un solo rabbino. Ricordo ancora che Clemente, il fratello minore di Doris, fu tra i pochi correligionari che con molta umanità e grande coraggio si prestarono piamente alla ricomposizione delle salme, al lavaggio rituale e alla tumulazione dei corpi, dei troppi corpi straziati da sevizie senza confronto o, come ho già riferito, arsi vivi. I danni materiali furono incalcolabili. Nove furono le sinagoghe profanate: calpestati, fatti a pezzi o incendiati decine di rotoli della Torah. Si contarono a centinaia le case date alle fiamme, i negozi di lusso rasi al suolo, le botteghe più misere devastate. Senza numero furono i depositi di grossisti ebrei saccheggiati fino all’ultima pezza di tessuto o all’ultimo sacco di caffè o di spezie, e poi date alle fiamme con taniche di benzina.

     Tentativi di riconciliazione: solo una farsa tragicomica. Tornata la calma, ma solo apparente perché la tensione rimase a livelli esplosivi per settimane, i giornali in lingua araba si fecero in quattro per condannare il massacro “che non aveva fatto onore al popolo di Libia”; i notabili religiosi, dal gran cadi al muftì, promossero tentativi di “riconciliazione”, non senza aver deplorato, bontà loro, lo “spiacevole avvenimento”. Incontri e discorsi di prammatica si susseguirono per giorni e mesi tra i maggiorenti delle due comunità, sotto il patrocinio dell’autorità occupante la quale, “ora”, dopo un sonno profondo durato quattro giorni, invocava “il ritorno dell’amichevole convivenza tra arabi ed ebrei ed il ripristino della reciproca fiducia per il bene del paese”. Ma né l’una né l’altra rinacquero più. Un’armonia plurisecolare era morta e sepolta per sempre.

     Cause, responsabilita’, connivenze. Molte le verita’: ma quella “vera” qual e’? E’ stata una catastrofe. Essa ha portato non solo lutti rovine e miseria, ma ha sconquassato dalle fondamenta rapporti intercomunitari pacifici e l’economia di un paese che si stava lentamente riprendendo dalla guerra. Sulle cause che sono alla sua origine gli storici non sono concordi. Com’è nella prassi comune, ognuno tira l’acqua al proprio mulino. Le versioni sono molteplici e diversificate, spesso contraddittorie. Anche i rapporti custoditi negli archivi storici delle diplomazie conducono a conclusioni difformi. Così come avviene nelle controversie territoriali internazionali, dove le ragioni non sono mai tutte e completamente da una parte sola, può esser condivisa l’ipotesi che l’immigrazione ebraica in Palestina da un lato, il nazionalismo panarabo in rapida lievitazione dall’altro, abbiano avuto un peso determinante nel far germogliare tra le masse libiche, e in particolare tra il popolino, un odio irrazionale verso i cugini semiti, fino ad allora inesistente e del tutto sconosciuto. Le due comunità, va ripetuto perché è un dato essenziale, erano sempre andate d’amore e d’accordo. Salvo episodi rarissimi e sporadici (una litigata incruenta dopo una bevuta di leghbi - la bevanda alcolica estratta dalla palma - o il passaggio all’Islam di una bella ragazza del ghetto di cui si era perdutamente invaghito il vicino di casa arabo) nulla di grave e di irrimediabile era mai avvenuto tra le due collettività. E’ vero che dopo la liberazione di Tripoli, i commercianti ebrei avevano allargato le proprie attività in ogni campo costruendo fortune anche molto consistenti (anche con l’Afrikakorps di Rommel avevano lavorato bene), ma ciò poteva aver provocato risentimento o invidie nelle file della concorrenza mussulmana: quindi niente di più che un puro e semplice antagonismo economico. E’ anche vero che subito dopo l’ingresso degli inglesi a Tripoli (c’era anche la Brigata palestinese composta dai futuri israeliani) la riapertura festosa dei due circoli, il Maccabi (laico) e il Ben Yehuda (religioso), aveva incoraggiato la gioventù ebraica del posto a mobilitarsi nella diffusione degli ideali sionisti. Di fronte alla nuova situazione che si era venuta a creare, a opera di propagandisti ben addestrati in alcuni circoli politici arabi, si era perfino arrivati a insinuare l’esistenza di “un complotto sionista” (contro chi? e con quali obiettivi?). Di qui, la strada è breve, una rabbia montante e l’invocazione di una risposta salutare, se del caso anche feroce, da dare “all’aggressione ebraica”. Ma secondo altre fonti più attendibili, è stata un’altra la causa principale del massacro o, più correttamente l’obiettivo ultimo del massacro. La politica britannica del momento appoggiava il cosiddetto Piano Bevin-Sforza (erano i ministri degli Esteri inglese e italiano), in base al quale le Nazioni Unite avrebbero dovuto affidare all’Italia l’amministrazione fiduciaria della Tripolitania, alla Gran Bretagna quella della Cirenaica. Ma poi il piano naufragò per una serie di ragioni che non starò qui ad elencare, ma anche perché fortemente osteggiato dai primi movimenti indipendentisti libici, i quali avevano fatto la loro comparsa al Cairo. In sostanza, secondo quelle fonti l’eccidio doveva servire alla politica imperiale di Londra per dimostrare al mondo che gli arabi di Libia non erano ancora maturi per l’indipendenza. Che poi fossero stati proprio gli inglesi gli istigatori e gli organizzatori dei tumulti è una supposizione abbastanza fondata, ma prove certe a conforto di una tale ipotesi non sono state trovate. Figuriamoci se sarebbe stato facile scoprire gli intrighi orditi dall’Intelligence Service, a quei tempi il più illustre servizio segreto del mondo. Esistono invece prove inconfutabili in base alle quali l’atteggiamento delle autorità inglesi fu quasi certamente connivente. Un elemento molto strano va anzitutto sottolineato. La domenica 4 novembre, quando nel pomeriggio scoppiarono i primi torbidi, non erano in sede né il governatore militare Blackley, inspiegabilmente assente dalla capitale libica da più giorni, né il colonnello Oulton senior officer del Civil Affairs office. Secondo elemento: lunedì 5, quando la situazione era ormai fuori controllo e tutta la città era in mano alla teppaglia, l’atteggiamento dei britannici fu prima passivo, poi tardivo, quanto meno incerto. Il che, era inevitabile, non poteva che indurre i rivoltosi a pensare di avere carta bianca. E in effetti - lo si è visto - la ebbero totale e ininterrotta per 72 ore. Per conseguenza non si può escludere una corresponsabilità o una “chiamata di correo” (quando si è di fronte ad una strage non ci sono sottigliezze giuridiche, più o meno una cosa vale l’altra) della British Military Administration. D’altra parte è pacifico che la polizia libica, agli ordini di ufficiali britannici, “fu certamente infedele”. Questo sostennero di rimando e con forza gli inglesi per ribattere le accuse che erano state mosse nei loro confronti. L’alibi contiene, in effetti, una buona dose si verità, Ma è altrettanto vero che quegli stessi ufficiali provenivano dalle guarnigioni del Medio Oriente. Testimoni diretti degli atti di terrorismo compiuti dall’Irgun Zvei Leumi o dalla Banda Stern in Palestina, non potevano nutrire molta simpatia per la comunità ebraica di Libia. Al limite, chissà, forse potevano anche gradire che venisse rotta la testa a qualche ebreo. Devo anche aggiungere che i provvedimenti volti a ripristinare l’ordine pubblico, oltre che in ritardo, furono emessi con il contagocce. Prima “il coprifuoco”; ma non servì a nulla perché le bande di assassini sfinite per le scorrerie della giornata e sazie per i primi bagni di sangue avevano bisogno di qualche ora di sonno per ritemprarsi, tant’è vero che all’indomani di ogni notte i tumulti divampavano con eguale intensità e violenza. Poi, dopo due giorni, ma solo dopo due giorni, venne proclamato, vivaddio, “lo stato di emergenza”. Per completare il quadro del comportamento incerto e ondeggiante delle autorità di governo inglesi va soprattutto ricordato che la calma ritornò nel paese soltanto “dopo l’intervento dell’esercito”. L’impiego delle truppe - la notazione non è meno importante - fu deciso dal brigadiere generale Temple, comandante in capo della Piazza di Tripoli, autonomamente, di propria iniziativa, senza che ne fosse stato richiesto, come invece avrebbe dovuto essere, dal Civil Affairs Office. Secondo alcune fonti non è da escludersi, e questa potrebbe essere un’altra faccia della verità, che l’ordine di intervenire con le baionette sia giunto direttamente da Londra, scavalcando il governatore Blackley ed i suoi collaboratori. Come scrive Renzo De Felice nel suo volume “Ebrei in un paese arabo”, tutto ciò autorizza a concludere che “con il loro ambiguo comportamento gli inglesi si erano resi praticamente corresponsabili dell’eccidio”. La chiamata di correo dell’amministrazione civile, quindi, è più che un sospetto. E’ un giudizio negativo su tutta la linea, un’accusa che gli ebrei di Tripoli hanno sempre sostenuto, senza reticenze o perplessità. Per motivi di spazio ho dovuto limitarmi all’essenziale. Ho solo punteggiato la posizione dell’autorità occupante. Per analizzarla in tutti i suoi meandri più oscuri occorrerebbero pagine e pagine e lunghe ricerche di archivio. Ma non è questo l’obiettivo del mio scritto, che ha finalità ben più modeste.

     Un tentativo di pogrom nel 1948. Andiamo avanti. Un tentato pogrom si è ripetuto nel 1948 alla nascita dello Stato di Israele.

Ma questa volta la resistenza ebraica fu forte e decisiva, e gli arabi ebbero la peggio. Dopo il ‘45 la gioventù ebraica del ghetto si era addestrata clandestinamente e clandestinamente si era procurata anche delle armi da fuoco.

Pentoloni di olio bollente furono riversati dall’alto delle mura della Hara sugli attaccanti disseminati sulla spianata sottostante. In quella occasione le perdite degli arabi furono di molto superiori a quelle ebraiche.

    I primi episodi. Dopo il fatti del ‘45 e del ‘48, gli ebrei si misero l’anima in pace. Si resero conto, molto a malincuore, che quella terra non era più per loro. Era diventata terra nemica. Cominciarono così a partire. Il via dell’alijà, cioè dell’emigrazione verso Erez Israel, organizzata in modo splendido dall’Ose (Organizzazione sanitaria ebraica, diretta in Italia dal benemerito rag. Raffaele Cantoni) e dalla Jewish Agency fu dato dagli inglesi in 2 febbraio 1949. Ricordo molto bene quel giorno perché in poche ore Tripoli fu coperta da un’abbondante nevicata. Era una cosa molto rara vedere la mia città, già tutta bianca, ammantarsi di altro bianco. Era di buon auspicio, così dissero i vecchi. La notizia dell’ordinanza inglese si sparse in un baleno in tutta la città. La Comunità, gli uffici di polizia, il Dipartimento dell’immigrazione furono presi d’assalto, addirittura travolti da una folla impressionante accorsa, chi per informarsi, chi per richiedere il visto d’uscita. L’animava un solo desiderio: quello di andarsene al più presto, anche con poche cose, di abbandonare per sempre “la vecchia patria”, per ritrovarsi in quella sognata da duemila anni nel Seder di Pesach. “Quest’anno qui, un altr’anno a Gerusalemme”. Dei trentamila aspiranti all’espatrio, almeno venticinquemila riuscirono a partire, a scaglioni massicci, tra il 1949 ed il 1950. Lasciarono Tripoli a bordo di grosse navi venute da Israele. A questo numero vanno aggiunti quasi 1.200 ebrei, quasi tutti ragazzi, i quali se ne andarono via come emigranti clandestini, senza passaporto e senza neanche uno zaino o una valigia. Mio cugino Daniele Forti (Lele), un giovane bellissimo, alto e forte di 17 anni, non riuscì a raggiungere un’imbarcazione di fortuna che si trovava al largo di fronte al Lido Maccabi. Morì in pochi giorni di febbre tifoidea dopo un’infruttuosa nuotata.

     Disordini anche nel 1956. Ma altri tumulti, sedati sul nascere dal governo libico, scoppiarono nel 1956 all’epoca della spedizione anglo-franco-israeliana di Suez. L’esodo allora ricominciò di nuovo, alla spicciolata, con rotta su Israele, ma anche verso l’Italia, verso Roma e Milano. Questa volta lasciavano la terra di origine anche i primi nuclei familiari della media e alta borghesia, i cosiddetti “benestanti”.

     La guerra dei Sei Giorni. Con la “Guerra dei sei giorni” nel 1967, altro terrore, altri morti (almeno 17), altre rovine. Quel fatto di storia epica per Israele determinò la partenza totale e definitiva dell’antica comunità ebraica di Libia. Nel suo libro La terra promessa, al re del Marocco Mohammed V - che gli aveva chiesto: “Ma perché mai i miei sudditi ebrei, che considero cari come i miei figli, vogliono andarsene via?” - Joe Golan diede una risposta: “Maestà, un ebreo se ne va quando sente che è venuto il momento”. Anche per noi è stato così. Rimasero a Tripoli un pugno di correligionari, per lo più anziani e di salute malferma. Non se la sentivano di andare incontro a nuove culture e nuove genti, di affrontare un mondo moderno, progredito. Forse erano troppo legati a quella terra.

     L’avvenire dei figli. L’essere stati costretti alla fuga, ad abbandonare ogni cosa, dalle più care - i nostri morti - ai più piccoli oggetti del sentimento, era una disgrazia tremenda resa ancora più tragica perché inimmaginabile, fuori da ogni previsione. Per tutto il viaggio mille pensieri si erano rincorsi e intrecciati nella mia mente, ma uno fra tutti li aveva soverchiati. Quella partenza, disorganizzata, disordinata, decisa e compiuta in fretta e furia, con due sole valigie di biancheria intima e poche sterline libiche in tasca, non era forse uguale all’altra fuga, quella della terra d’Egitto? Cosa c’era di diverso nella sostanza? Io proprio così l’avevo voluta sentire in quella sera caldissima del 17 giugno 1967, quando dall’aereo dell’Alitalia che ci portava in salvo, continuavo ad inseguire per l’ultima volta il profilo della mia città. Vedevo Tripoli scomparire dietro la nebulosa della costiera e gli ultimi ciuffi di palme. Nel cielo pulito, che stava passando con i colori di Chagall, dal rosa al viola dell’imbrunire, una luna piena ci guardava quasi con aria di protezione. Pochi minuti ancora; poi più nulla. Sotto di noi non c’era che il mare, un grande piatto d’argento. Avevamo gli occhi umidi e la gola secca. Tra le mie braccia tenevo stretta Marina, la mia bimba di appena 5 anni. Dormiva tranquilla. In quell’ora e mezza di volo, non una sola parola. Ma quante cose ci siamo dette con gli sguardi che erano tristi, rassegnati. Disumano, disumano da morire, troppo brutale era stato lo strappo da quello che per tutta una vita noi, i nostri padri, i nonni ed i bisnonni, avevamo considerato ed amato come “la nostra patria”. Ma era tutt’altro che una sciagura. Su quell’aereo, senza saperlo, con il cuore a pezzi, stavamo correndo verso la fortuna, per noi e quel che più contava per i nostri figli. Fa miracoli il tempo. E’ un unguento che non ha rivali. Lecca le ferite e attenua il dolore, anche il più forte. E quando, dopo i primi legittimi sfoghi della disperazione, a mente fredda si passa dalla tensione alla meditazione, la ragione ha il sopravvento, e vince. Come per noi è stato così per tutti gli ebrei che si erano battuti il petto per aver perduto Tripoli.

 



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