IL POGROM DIMENTICATO
Marcello Ortona
da: Diario della
settimana, anno II, n.35, 10-16 settembre 1997
Chi poteva
immaginare che quell’anno, che era incominciato più o meno come
gli altri del primissimo dopoguerra tutti difficili ma senza
scosse particolari, avrebbe segnato la mia vita, sconvolgendola
come per effetto di un terremoto? A due mesi dalla sua fine,
nello spazio di tre giorni, il 1945 si è presentato con due
volti diametralmente contrapposti: uno luminoso sul piano
professionale; l’altro terrificante sotto il profilo umano. E’
stato l’anno del primo pogrom antiebraico nella storia di
Tripoli; come ebreo certamente l’anno più doloroso ed oscuro
della mia vita. Ma fu anche l’anno in cui fui chiamato a
dirigere il “Corriere di
Tripoli”. Nel mio intimo ero orgoglioso in quel 1° novembre
del 1945 di prendere il posto che era stato di Renato Mieli fin
dal 23 gennaio 1943, dal giorno stesso della liberazione di
Tripoli da parte dell' VIII Armata di Montgomery. Anche se
pubblicato dall’Amministrazione militare britannica (Bma),
quindi da un’autorità straniera e per giunta militare, il
Corriere era un
quotidiano italiano sotto ogni aspetto. Era scritto in italiano,
redatto e diretto da italiani, stampato in una tipografia
italiana, ma requisita, da tipografi italiani; era destinato in
prevalenza ai lettori nostri connazionali, ma anche alle altre
minoranze europee (inglese, francese, greca e maltese) residenti
a Tripoli. Allora io avevo 23 anni. Ricevere un incarico così
delicato a quella età sarebbe stato, in tempi normali, un
successo, una conquista esaltante. Invece in quei giorni di
lutti senza fine e di solo sangue la nomina suscitò in me una
sensazione di assoluta indifferenza. La soddisfazione non durò
che poche ore. Mi resi subito conto della responsabilità che mi
era caduta sulle spalle: mi sentivo schiacciato non dal solito
peso, ma da un macigno grosso come una casa. Già era un
problema, e non indifferente, dirigere il giornale con
equilibrio in quelle condizioni eccezionali: non solo si era di
fronte allo sconvolgimento totale dell’ordine pubblico: ma si
era verificata una situazione di emergenza politica che
richiedeva la più attenta sensibilità di giudizio e di
comportamento. Se a questo elemento veniva aggiunta la mia
speciale identità etnica, si può facilmente immaginare quale
sforzo psichico, e non solo fisico, sia costato assolvere
l’incarico, con serenità di spirito certamente no, quanto meno
con la dovuta obiettività. Io non potevo comportarmi
diversamente. L’imparzialità più assoluta era parte del mio
dovere.
L’anniversario della Dichiarazione
Balfour.
Un piccolo passo indietro. Il 2 novembre del 1945 era
l’anniversario della Dichiarazione Balfour del 1917. Si trattava
di una lettera “storica”, di poche righe, con la quale il
governo di Sua maestà britannica prometteva agli ebrei della
diaspora l’appoggio per la costituzione di un “focolare” ebraico
in Palestina. Quel giorno dei disordini scoppiarono al Cairo e
ad Alessandria. La notizia dei tumulti rimbalzò in poche ore a
Tripoli come in tutto il mondo arabo, la tensione salì
pericolosamente, ma nulla faceva presagire che di lì a 48 ore la
città sarebbe finita nel caos più completo, in un crescendo di
assalti e di crudeltà inaudite. Per tre giorni una follia
omicida e distruttiva sconvolse Tripoli ed altre località della
provincia. In Tripolitania si salvò solo Jefren, una cittadina
sulle montagne del Gebel alle porte del Sahara, forse perché
abitata non da arabi ma da popolazione berbera. E, salvo pochi
casi, sfuggirono al massacro anche le piccole comunità ebraiche
sparse un po’ ovunque in Cirenaica. Il merito della “esenzione”
va attribuito all’intervento protettivo del Senusso Idris, molto
religioso, diventato poi, con l’indipendenza del 1952, primo ed
ultimo re di Libia.
Quel pogrom (altri ne seguiranno
negli anni, ma di dimensioni ed intensità minori), segnò per
sempre la fine di un rapporto di mutuo rispetto e di secolare
amicizia tra ebrei e arabi che durava ininterrottamente da oltre
duemila anni: la comunità ebraica si era insediata in quelle
terre prima ancora che arrivassero le legioni di Roma. Il taglio
era stato troppo profondo. E nonostante i tentativi, falsi ed
ipocriti, svolti dai notabili delle due parti sotto l’egida
burocratico-formale ma non meno farsesca dell’autorità
occupante, la ferita non si rimarginò più. Per secoli non era
mai corso del sangue tra le due etnie. Ma dopo il pogrom, alla
fiducia di un tempo era subentrata la diffidenza, all’amicizia
l’odio, a volte scoperto, altre volte soffocato, in ogni caso
cresciuto e stabilizzato a livelli di guardia. Ormai il
deterioramento delle relazioni fra le due comunità, una volta
fraterne, era totale. Aveva colpito al cuore ogni settore della
vita cittadina e del paese. Il solco che si era aperto tra arabi
ed ebrei non era più colmabile. Così è stato a Tripoli dopo quel
1945. Così sarà cinquant’anni dopo a Sarajevo. Così è avvenuto e
avverrà in tutte quelle terre, dove sciovinismi esasperati o
fanatismi integralisti, più distruttivi della droga più pesante,
annebbiano la mente degli uomini esaltando solo l’odio e la
violenza.
Dopo 3200 anni un altro segno sugli
usci.
I tumulti ebbero inizio nel tardo pomeriggio di domenica 4
novembre. Le prime aggressioni si verificarono alla stessa ora,
simultaneamente e in più punti della città. Furono attaccate
soltanto case di ebrei e negozi di ebrei. Questa circostanza
conferma che i disordini erano stati organizzati e coordinati in
anticipo, si dice da piccoli intellettuali che avevano studiato
nelle università del Cairo abbeverandosi alla fonte del
nazionalismo panarabo più acceso. L’ipotesi è avvalorata anche
dal fatto che il giorno prima furono notati arabi ben vestiti
(forse gli stessi organizzatori) segnare con il gesso le porte
di tutte le case e botteghe con le scritte in lingua araba
“ebreo”, “italiano”, “arabo”. Durante i disordini alcuni
testimoni italiani videro gruppi di giovanottini eleganti
fermare i pochi passanti che erano in giro e domandare loro la
carta d’identità. Se il possessore era italiano o arabo veniva
lasciato proseguire indisturbato; se era invece ebreo non poteva
sfuggire: era in trappola e cadeva sotto i colpi di bastoni e
mazze di ferro, in molti casi anche di lunghi coltelli e
pugnali.
In quel tardo pomeriggio di autunno
non pioveva, ma il tempo era uggioso, faceva molto freddo e
tirava un gran vento. Io non ero ancora uscito per andare al
giornale. Di solito mi mettevo in cammino verso le sei. Ad un
tratto sentii delle urla provenire da Corso Vittorio Emanuele,
sempre più forti, più rumorose. Noi abitavamo all’ultimo piano
del palazzo della Previdenza sociale. Con mio padre mi affacciai
in balcone. Mia madre invece, sentendo quegli schiamazzi, si
spaventò da morire, corse in camera sua e non si fece più
vedere. Così l’ho sempre conosciuta: soffriva di palpitazione
per ogni minima emozione. Fu allora che con i miei occhi ho
assistito, inorridito ed impotente, a una scena che non
dimenticherò mai; la più spaventosa che abbia mai visto in vita
mia. Un vecchietto piegato in due, coperto da qualcosa che più
che un cappotto mi sembrò essere un mantello nero perché
svolazzava gonfiato dal vento, correva o tentava di correre
muovendosi a zig e zag da un lato all’altro del marciapiede. Era
inseguito da una turba di ragazzini sghignazzanti che lo
bersagliavano con lanci di pietre al grido “he he el jud” (che
muoia l’ebreo). Dopo pochi metri il pover’uomo cadde per terra e
non si rialzò più. Era stato finito, lapidato. La similitudine
potrà apparire raccapricciante e forse irrispettosa ma
ricordando a distanza di tanti anni quell’episodio così
“meschino”, mi sembra di vedere in quella povera vittima
innocente un topolino terrorizzato inseguito da un branco di
gatti inferociti. Per mia fortuna non sono stato testimone
oculare di altre nefandezze. Mi è molto difficile descrivere
quei giorni così terribili. Ero inquieto, sconvolto, come tutti
del resto. Doris non era più uscita di casa. Per dei giorni non
ci siamo più incontrati. Ci vedevamo e ci salutavamo dai balconi
perché abitavamo in due palazzi uno di fronte all’altro, ma
sempre per pochi minuti. Io non uscivo più a piedi, anche se il
Corriere era a due passi da casa. Trascorrevo le mie ore o
qui o al giornale, dove venivo accompagnato con una jeep da un
ufficiale britannico redattore del “Tripoli
Times”. Noi del
Corriere e gli inglesi avevamo gli uffici in due ali diverse
di uno stesso enorme appartamento. Tornando a quel pomeriggio
del 4 novembre, era già vicino il tramonto, il presidente della
Comunità, informato che gli avvenimenti stavano prendendo una
brutta piega, non perse tempo e corse alla Stazione centrale di
polizia; ma il piantone di guardia lo informò che, data la
giornata festiva, ‘tutti gli ufficiali” (ufficiali britannici)
non erano in servizio; quanto agli agenti erano “tutti” fuori
sede, per cui non era possibile prendere contatto né con gli uni
né con gli altri.
Carta bianca per tre giorni.
Le notizie sui primi eccidi e incendi fecero rapidamente il giro
della città. Per tutti noi ebrei la notte fu lunga,
interminabile. Passò, come D-o volle, insonne per quasi tutte le
case, con l’anima in pena e con gli occhi sbarrati a guardare il
soffitto, al pensiero del pianto e dello strazio per i primi
lutti. Per tutta la città, in quella nuova, nella vecchia, alla
Hara, il silenzio era assoluto, rotto dal raro passaggio di
qualche Land Rover della polizia. Ma era un brutto silenzio,
cupo, buio, premonitore del peggio. Al mattino di lunedì, appena
fu giorno, i disordini divamparono di nuovo, questa volta
estendendosi in poche ore a tutti i punti della città, anche ai
più lontani, sia nella cerchia dei quartieri nuovi che in quelli
vecchi. Le aggressioni e i saccheggi, gli stupri, gli incendi
furono ovunque. Nessuna zona si salvò. In quel 5 di novembre
l’unico provvedimento adottato dalle autorità fu la
proclamazione del coprifuoco; di esso venne dato avviso all’ultim’ora,
poco prima che facesse buio, con manifesti murali e a mezzo di
altoparlanti montati sulle macchine della polizia. Ne parlerò
più diffusamente più avanti. Il giorno più tremendo fu martedì.
La violenza era ormai all’apice. Tripoli non era più una città,
era l’inferno. Nello spazio di sole ventiquattr’ore aveva
perduto il suo volto civile. Era stata trasformata in una bolgia
dantesca. Ma mercoledì 7 non fu da meno. Procedeva secondo i
piani un vero e proprio pogrom premeditato, di qualità
primitive, di proporzioni spaventose. Nell’orrore della
carneficina la furia degli aguzzini, se non altrettanto
scientifica, non è stata meno bestiale di quella nazista. A
Tripoli le aggressioni più gravi si verificarono nella città
nuova dove, a differenza del ghetto, le famiglie ebraiche
vivevano in case isolate, spesso lontane l’una dall’altra. Fra i
tanti casi ne devo ricordare uno per la sua incredibile ferocia.
Ad una donna prossima al parto che abitava al “Colosseo”, un
palazzo così chiamato per la sua conformazione architettonica,
fu tagliato il ventre e il bambino che teneva in grembo fu
lanciato per strada, giù dal balcone. Il ghetto era una piccola
città nella città vecchia dove almeno ventimila ebrei (di loro
non pochi erano sulla soglia della miseria) vivevano e
lavoravano gomito a gomito in un dedalo intricato di piazzette e
di vicoli strettissimi. Ma la resistenza di quella gente fu
strenua e gli assalitori, nonostante l’impeto rabbioso e la
superiorità di numero, non riuscirono a far breccia ed a
penetrare nella cittadella. Se quegli assalti non fossero
falliti, è difficile immaginare quanto alto sarebbe stato il
bilancio delle vittime. In provincia, nella notte tra martedì e
mercoledì, eccidi in massa avvennero, tra crudeltà e sevizie
inaudite, a Zavia e a Zanzur. Qui, in particolare, dove vivevano
120 ebrei, ne furono massacrati 40. All’Amrus, il quartiere
ebraico di Suk el Giuma, a pochi chilometri da Tripoli, gli
assassini dopo averle uccise infierirono barbaramente sulle loro
vittime. Le cosparsero di benzina o di petrolio, poi appiccarono
il fuoco. Bombe a mano furono lanciate proprio a Suk el Giuma
contro la Sinagoga e alcune case. A Kussabat, non una donna fu
risparmiata; tutte, anche le più anziane, subirono violenza. In
qualche caso furono sterminate intere famiglie, dal nonno
all’ultimo dei nipotini, trucidate tra torture di impensabile
crudeltà. Mutilazioni furono constatate in più parti dei loro
corpi. Ma proprio a Kussabat, alcuni ebrei - per la verità pochi
- pur di aver salva la vita, abiurarono la religione dei padri
convertendosi all’Islam.
“Very urgent – top secret”.
Nei quattro giorni di pogrom e la stessa operazione si è
ripetuta nei giorni successivi, verso le dieci di sera da un
motociclista venivano recapitati al giornale dei plichi
sigillati con la stampiglia “very
urgent - top secret”. Si poteva capire l’urgenza, non la
segretazione. In quelle buste c’erano i comunicati ufficiali
emanati, indifferentemente, o dall’autorità di governo o dal
quartier generale della polizia. Portavano le notizie sui
disordini della giornata, poche righe stringate, asettiche, con
il “conto ufficiale” dei morti e dei feriti, seguito dall’elenco
dei danneggiamenti più importanti. Sono sempre ridotte all’osso,
in tutti i paesi del mondo, le notizie “ufficiali” quando devono
riferire di tumulti o di disastri, ma soprattutto di stragi.
Naturalmente questi comunicati avevano già il loro spazio
riservato che li aspettava sulla prima colonna di una prima
pagina che, a quell’ora, era già in fase di avanzata
composizione. Quando aprivo quelle buste, di un giallino
sbiadito ma nefasto, le mani mi tremavano. Perché toccava a me,
primo ebreo, sapere quanti altri ebrei erano stati fatti a pezzi
nelle ultime 24 ore. E mentre le scorrevo, quelle quattro righe,
avevo di fronte il volto rosso e nero della strage, vedevo
l’assassinio di un vecchio malato che moriva dissanguato senza
la forza di un lamento, sentivo le urla disperate di spose
bellissime appena incinte, il pianto desolato di bambini ancora
in fasce, tutti ebrei come me, tutti fratelli miei. Quella
lettura serale, che era inevitabile perché non potevo delegarla
ad altri, con il passar dei giorni, era diventata una specie di
condanna, uno spettro che mi tornava continuamente davanti agli
occhi, senza che riuscissi a liberarmene. E ogni volta un
brivido mi scorreva lungo la schiena. Mi veniva da piangere, ma
non potevo. Rientravo a casa protetto dal coprifuoco, non prima
dell'una, dopo aver vistato l’ultima bozza passata al torchio.
Anche se per la tensione accumulata e per le energie che avevo
consumato mi sentivo a pezzi, completamente svuotato, prender
sonno era diventato un problema. Vedevo passare le ore una dopo
l’altra, ed ero sempre sveglio. Poi mi addormentavo verso le
cinque o le sei quando l’alba era già vicina.
Si respirava il silenzio.
Al giornale si lavorava sotto una cappa di piombo per la
tensione, che fu sempre altissima, e anche per la paura. Perché
non dirlo? Non c’era da vergognarsi: di fronte al terrore non
c’è eroismo che tenga. Anche il coraggio, quello più insensato,
va a farsi benedire. In tipografia, più nessun dialogo tra noi;
rumoroso, vivace, spesso allegro come era di solito. Facce scure
e solo poche parole, quelle strettamente indispensabili: “Per
favore, ci son queste tre righe da ricomporre; dov’è la bozza
della terza? E’ stata già corretta?”. A parte il ticchettio
delle linotype e il dolce fruscio delle rotative (quanta
passione per quel mestiere e che nostalgia...) si respirava il
silenzio, quasi fossimo in chiesa. Eppure, nonostante
l’atmosfera così pesante, grazie all’impegno forte di tutti i
redattori ed i tipografi - mi volevano bene e devo dire che li
ho sempre avuti fraternamente vicini - riuscii a tener duro ed
il giornale continuò le sue pubblicazioni, regolarmente. Uscì
ogni mattina di quei disgraziati giorni.
Le armi del massacro.
“Per compiere il massacro - si legge in una relazione ufficiale
della Comunità di Tripoli - gli assaltatori avevano fatto uso
delle armi più disparate: coltelli, pugnali, randelli, sbarre di
ferro, rivoltelle, e perfino bombe a mano. In generale le
vittime venivano prima colpite alla testa con un corpo
contundente; poi, una volta stramazzate al suolo, venivano
finite a coltellate o a pugnalate e spesso sgozzate”. Soltanto
il mercoledì, a tarda sera, fu proclamato lo stato di emergenza.
Fu disposto dall’esercito. “Vietati gli assembramenti, vietato
il possesso di armi o di corpi contundenti. Corte marziale e
processi per direttissima per i trasgressori”. L’ordine era
finalmente ripristinato. I tumulti cominciarono così a scemare;
ma lasciavano dietro di loro una lunga scia di sangue e di
disperazione.
Le stime sui morti, il servizio
funebre.
Le stime sul numero dei morti non concordano: ufficialmente 167,
ma secondo altre fonti, più vicine alla realtà, sono state 300 o
addirittura 350. Centinaia e centinaia di feriti, molti i
bambini, ricoverati negli ospedali di Tripoli e di Misurata,
dove i medici e gli infermieri italiani, dai primari all’ultimo
portantino, si prodigarono, con straordinaria generosità, al
limite delle forze 24 ore su 24. Ricordo che i funerali delle
vittime si svolsero al buio, sotto coprifuoco, lungo un percorso
“blindato” da un cordone di truppe con baionetta innestata,
senza la presenza di nessun parente. Il servizio religioso fu
officiato da un solo rabbino. Ricordo ancora che Clemente, il
fratello minore di Doris, fu tra i pochi correligionari che con
molta umanità e grande coraggio si prestarono piamente alla
ricomposizione delle salme, al lavaggio rituale e alla
tumulazione dei corpi, dei troppi corpi straziati da sevizie
senza confronto o, come ho già riferito, arsi vivi. I danni
materiali furono incalcolabili. Nove furono le sinagoghe
profanate: calpestati, fatti a pezzi o incendiati decine di
rotoli della Torah. Si contarono a centinaia le case date alle
fiamme, i negozi di lusso rasi al suolo, le botteghe più misere
devastate. Senza numero furono i depositi di grossisti ebrei
saccheggiati fino all’ultima pezza di tessuto o all’ultimo sacco
di caffè o di spezie, e poi date alle fiamme con taniche di
benzina.
Tentativi di riconciliazione: solo
una farsa tragicomica.
Tornata la calma, ma solo apparente perché la tensione rimase a
livelli esplosivi per settimane, i giornali in lingua araba si
fecero in quattro per condannare il massacro “che non aveva
fatto onore al popolo di Libia”; i notabili religiosi, dal
gran cadi al muftì,
promossero tentativi di “riconciliazione”, non senza aver
deplorato, bontà loro, lo “spiacevole avvenimento”. Incontri e
discorsi di prammatica si susseguirono per giorni e mesi tra i
maggiorenti delle due comunità, sotto il patrocinio
dell’autorità occupante la quale, “ora”, dopo un sonno profondo
durato quattro giorni, invocava “il ritorno dell’amichevole
convivenza tra arabi ed ebrei ed il ripristino della reciproca
fiducia per il bene del paese”. Ma né l’una né l’altra
rinacquero più. Un’armonia plurisecolare era morta e sepolta per
sempre.
Cause, responsabilita’, connivenze.
Molte le verita’: ma
quella “vera” qual e’? E’ stata una catastrofe. Essa ha
portato non solo lutti rovine e miseria, ma ha sconquassato
dalle fondamenta rapporti intercomunitari pacifici e l’economia
di un paese che si stava lentamente riprendendo dalla guerra.
Sulle cause che sono alla sua origine gli storici non sono
concordi. Com’è nella prassi comune, ognuno tira l’acqua al
proprio mulino. Le versioni sono molteplici e diversificate,
spesso contraddittorie. Anche i rapporti custoditi negli archivi
storici delle diplomazie conducono a conclusioni difformi. Così
come avviene nelle controversie territoriali internazionali,
dove le ragioni non sono mai tutte e completamente da una parte
sola, può esser condivisa l’ipotesi che l’immigrazione ebraica
in Palestina da un lato, il nazionalismo panarabo in rapida
lievitazione dall’altro, abbiano avuto un peso determinante nel
far germogliare tra le masse libiche, e in particolare tra il
popolino, un odio irrazionale verso i cugini semiti, fino ad
allora inesistente e del tutto sconosciuto. Le due comunità, va
ripetuto perché è un dato essenziale, erano sempre andate
d’amore e d’accordo. Salvo episodi rarissimi e sporadici (una
litigata incruenta dopo una bevuta di
leghbi - la bevanda
alcolica estratta dalla palma - o il passaggio all’Islam di una
bella ragazza del ghetto di cui si era perdutamente invaghito il
vicino di casa arabo) nulla di grave e di irrimediabile era mai
avvenuto tra le due collettività. E’ vero che dopo la
liberazione di Tripoli, i commercianti ebrei avevano allargato
le proprie attività in ogni campo costruendo fortune anche molto
consistenti (anche con l’Afrikakorps
di Rommel avevano lavorato bene), ma ciò poteva aver provocato
risentimento o invidie nelle file della concorrenza mussulmana:
quindi niente di più che un puro e semplice antagonismo
economico. E’ anche vero che subito dopo l’ingresso degli
inglesi a Tripoli (c’era anche la Brigata palestinese composta
dai futuri israeliani) la riapertura festosa dei due circoli, il
Maccabi (laico) e il
Ben Yehuda
(religioso), aveva incoraggiato la gioventù ebraica del posto a
mobilitarsi nella diffusione degli ideali sionisti. Di fronte
alla nuova situazione che si era venuta a creare, a opera di
propagandisti ben addestrati in alcuni circoli politici arabi,
si era perfino arrivati a insinuare l’esistenza di “un complotto
sionista” (contro chi? e con quali obiettivi?). Di qui, la
strada è breve, una rabbia montante e l’invocazione di una
risposta salutare, se del caso anche feroce, da dare
“all’aggressione ebraica”. Ma secondo altre fonti più
attendibili, è stata un’altra la causa principale del massacro
o, più correttamente l’obiettivo ultimo del massacro. La
politica britannica del momento appoggiava il cosiddetto Piano
Bevin-Sforza (erano i ministri degli Esteri inglese e italiano),
in base al quale le Nazioni Unite avrebbero dovuto affidare
all’Italia l’amministrazione fiduciaria della Tripolitania, alla
Gran Bretagna quella della Cirenaica. Ma poi il piano naufragò
per una serie di ragioni che non starò qui ad elencare, ma anche
perché fortemente osteggiato dai primi movimenti indipendentisti
libici, i quali avevano fatto la loro comparsa al Cairo. In
sostanza, secondo quelle fonti l’eccidio doveva servire alla
politica imperiale di Londra per dimostrare al mondo che gli
arabi di Libia non erano ancora maturi per l’indipendenza. Che
poi fossero stati proprio gli inglesi gli istigatori e gli
organizzatori dei tumulti è una supposizione abbastanza fondata,
ma prove certe a conforto di una tale ipotesi non sono state
trovate. Figuriamoci se sarebbe stato facile scoprire gli
intrighi orditi dall’Intelligence
Service, a quei tempi il più illustre servizio segreto del
mondo. Esistono invece prove inconfutabili in base alle quali
l’atteggiamento delle autorità inglesi fu quasi certamente
connivente. Un elemento molto strano va anzitutto sottolineato.
La domenica 4 novembre, quando nel pomeriggio scoppiarono i
primi torbidi, non erano in sede né il governatore militare
Blackley, inspiegabilmente assente dalla capitale libica da più
giorni, né il colonnello Oulton
senior officer del
Civil Affairs office.
Secondo elemento: lunedì 5, quando la situazione era ormai fuori
controllo e tutta la città era in mano alla teppaglia,
l’atteggiamento dei britannici fu prima passivo, poi tardivo,
quanto meno incerto. Il che, era inevitabile, non poteva che
indurre i rivoltosi a pensare di avere carta bianca. E in
effetti - lo si è visto - la ebbero totale e ininterrotta per 72
ore. Per conseguenza non si può escludere una corresponsabilità
o una “chiamata di correo” (quando si è di fronte ad una strage
non ci sono sottigliezze giuridiche, più o meno una cosa vale
l’altra) della British
Military Administration. D’altra parte è pacifico che la
polizia libica, agli ordini di ufficiali britannici, “fu
certamente infedele”. Questo sostennero di rimando e con forza
gli inglesi per ribattere le accuse che erano state mosse nei
loro confronti. L’alibi contiene, in effetti, una buona dose si
verità, Ma è altrettanto vero che quegli stessi ufficiali
provenivano dalle guarnigioni del Medio Oriente. Testimoni
diretti degli atti di terrorismo compiuti dall’Irgun
Zvei Leumi o dalla Banda Stern in Palestina, non potevano
nutrire molta simpatia per la comunità ebraica di Libia. Al
limite, chissà, forse potevano anche gradire che venisse rotta
la testa a qualche ebreo. Devo anche aggiungere che i
provvedimenti volti a ripristinare l’ordine pubblico, oltre che
in ritardo, furono emessi con il contagocce. Prima “il
coprifuoco”; ma non servì a nulla perché le bande di assassini
sfinite per le scorrerie della giornata e sazie per i primi
bagni di sangue avevano bisogno di qualche ora di sonno per
ritemprarsi, tant’è vero che all’indomani di ogni notte i
tumulti divampavano con eguale intensità e violenza. Poi, dopo
due giorni, ma solo dopo due giorni, venne proclamato, vivaddio,
“lo stato di emergenza”. Per completare il quadro del
comportamento incerto e ondeggiante delle autorità di governo
inglesi va soprattutto ricordato che la calma ritornò nel paese
soltanto “dopo l’intervento dell’esercito”. L’impiego delle
truppe - la notazione non è meno importante - fu deciso dal
brigadiere generale Temple, comandante in capo della Piazza di
Tripoli, autonomamente, di propria iniziativa, senza che ne
fosse stato richiesto, come invece avrebbe dovuto essere, dal
Civil Affairs
Office. Secondo
alcune fonti non è da escludersi, e questa potrebbe essere
un’altra faccia della verità, che l’ordine di intervenire con le
baionette sia giunto direttamente da Londra, scavalcando il
governatore Blackley ed i suoi collaboratori. Come scrive Renzo
De Felice nel suo volume “Ebrei
in un paese arabo”,
tutto ciò autorizza a concludere che “con il loro ambiguo
comportamento gli inglesi si erano resi praticamente
corresponsabili dell’eccidio”. La chiamata di correo
dell’amministrazione civile, quindi, è più che un sospetto. E’
un giudizio negativo su tutta la linea, un’accusa che gli ebrei
di Tripoli hanno sempre sostenuto, senza reticenze o
perplessità. Per motivi di spazio ho dovuto limitarmi
all’essenziale. Ho solo punteggiato la posizione dell’autorità
occupante. Per analizzarla in tutti i suoi meandri più oscuri
occorrerebbero pagine e pagine e lunghe ricerche di archivio. Ma
non è questo l’obiettivo del mio scritto, che ha finalità ben
più modeste.
Un tentativo di pogrom nel 1948.
Andiamo avanti. Un tentato pogrom si è ripetuto nel 1948 alla
nascita dello Stato di Israele.
Ma questa volta la resistenza ebraica fu forte e decisiva, e gli
arabi ebbero la peggio. Dopo il ‘45 la gioventù ebraica del
ghetto si era addestrata clandestinamente e clandestinamente si
era procurata anche delle armi da fuoco.
Pentoloni di olio bollente furono riversati dall’alto delle mura
della Hara sugli attaccanti disseminati sulla spianata
sottostante. In quella occasione le perdite degli arabi furono
di molto superiori a quelle ebraiche.
I
primi episodi.
Dopo il fatti del ‘45 e del ‘48, gli ebrei
si misero l’anima in pace. Si resero conto, molto a malincuore,
che quella terra non era più per loro. Era diventata terra
nemica. Cominciarono così a partire. Il via dell’alijà,
cioè dell’emigrazione verso Erez Israel, organizzata in modo
splendido dall’Ose (Organizzazione sanitaria ebraica, diretta in
Italia dal benemerito rag. Raffaele Cantoni) e dalla
Jewish Agency fu dato
dagli inglesi in 2 febbraio 1949. Ricordo molto bene quel giorno
perché in poche ore Tripoli fu coperta da un’abbondante
nevicata. Era una cosa molto rara vedere la mia città, già tutta
bianca, ammantarsi di altro bianco. Era di buon auspicio, così
dissero i vecchi. La notizia dell’ordinanza inglese si sparse in
un baleno in tutta la città. La Comunità, gli uffici di polizia,
il Dipartimento dell’immigrazione furono presi d’assalto,
addirittura travolti da una folla impressionante accorsa, chi
per informarsi, chi per richiedere il visto d’uscita. L’animava
un solo desiderio: quello di andarsene al più presto, anche con
poche cose, di abbandonare per sempre “la vecchia patria”, per
ritrovarsi in quella sognata da duemila anni nel Seder di Pesach.
“Quest’anno qui, un altr’anno a Gerusalemme”. Dei trentamila
aspiranti all’espatrio, almeno venticinquemila riuscirono a
partire, a scaglioni massicci, tra il 1949 ed il 1950.
Lasciarono Tripoli a bordo di grosse navi venute da Israele. A
questo numero vanno aggiunti quasi 1.200 ebrei, quasi tutti
ragazzi, i quali se ne andarono via come emigranti clandestini,
senza passaporto e senza neanche uno zaino o una valigia. Mio
cugino Daniele Forti (Lele), un giovane bellissimo, alto e forte
di 17 anni, non riuscì a raggiungere un’imbarcazione di fortuna
che si trovava al largo di fronte al Lido Maccabi. Morì in pochi
giorni di febbre tifoidea dopo un’infruttuosa nuotata.
Disordini anche nel 1956.
Ma altri tumulti, sedati sul nascere dal governo libico,
scoppiarono nel 1956 all’epoca della spedizione
anglo-franco-israeliana di Suez. L’esodo allora ricominciò di
nuovo, alla spicciolata, con rotta su Israele, ma anche verso
l’Italia, verso Roma e Milano. Questa volta lasciavano la terra
di origine anche i primi nuclei familiari della media e alta
borghesia, i cosiddetti “benestanti”.
La guerra dei Sei Giorni.
Con la “Guerra dei sei giorni” nel 1967, altro terrore, altri
morti (almeno 17), altre rovine. Quel fatto di storia epica per
Israele determinò la partenza totale e definitiva dell’antica
comunità ebraica di Libia. Nel suo libro
La terra promessa, al
re del Marocco Mohammed V - che gli aveva chiesto: “Ma perché
mai i miei sudditi ebrei, che considero cari come i miei figli,
vogliono andarsene via?” - Joe Golan diede una risposta:
“Maestà, un ebreo se ne va quando sente che è venuto il
momento”. Anche per noi è stato così. Rimasero a Tripoli un
pugno di correligionari, per lo più anziani e di salute
malferma. Non se la sentivano di andare incontro a nuove culture
e nuove genti, di affrontare un mondo moderno, progredito. Forse
erano troppo legati a quella terra.
L’avvenire dei figli.
L’essere stati costretti alla fuga, ad abbandonare ogni
cosa, dalle più care - i nostri morti - ai più piccoli
oggetti del sentimento, era una disgrazia tremenda resa
ancora più tragica perché inimmaginabile, fuori da ogni
previsione. Per tutto il viaggio mille pensieri si erano
rincorsi e intrecciati nella mia mente, ma uno fra tutti li
aveva soverchiati. Quella partenza, disorganizzata,
disordinata, decisa e compiuta in fretta e furia, con due
sole valigie di biancheria intima e poche sterline libiche
in tasca, non era forse uguale all’altra fuga, quella della
terra d’Egitto? Cosa c’era di diverso nella sostanza? Io
proprio così l’avevo voluta sentire in quella sera
caldissima del 17 giugno 1967, quando dall’aereo
dell’Alitalia che ci portava in salvo, continuavo ad
inseguire per l’ultima volta il profilo della mia città.
Vedevo Tripoli scomparire dietro la nebulosa della costiera
e gli ultimi ciuffi di palme. Nel cielo pulito, che stava
passando con i colori di Chagall, dal rosa al viola
dell’imbrunire, una luna piena ci guardava quasi con aria di
protezione. Pochi minuti ancora; poi più nulla. Sotto di noi
non c’era che il mare, un grande piatto d’argento. Avevamo
gli occhi umidi e la gola secca. Tra le mie braccia tenevo
stretta Marina, la mia bimba di appena 5 anni. Dormiva
tranquilla. In quell’ora e mezza di volo, non una sola
parola. Ma quante cose ci siamo dette con gli sguardi che
erano tristi, rassegnati. Disumano, disumano da morire,
troppo brutale era stato lo strappo da quello che per tutta
una vita noi, i nostri padri, i nonni ed i bisnonni, avevamo
considerato ed amato come “la nostra patria”. Ma era
tutt’altro che una sciagura. Su quell’aereo, senza saperlo,
con il cuore a pezzi, stavamo correndo verso la fortuna, per
noi e quel che più contava per i nostri figli. Fa miracoli
il tempo. E’ un unguento che non ha rivali. Lecca le ferite
e attenua il dolore, anche il più forte. E quando, dopo i
primi legittimi sfoghi della disperazione, a mente fredda si
passa dalla tensione alla meditazione, la ragione ha il
sopravvento, e vince. Come per noi è stato così per tutti
gli ebrei che si erano battuti il petto per aver perduto
Tripoli.
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