INTERVISTA A ELIO TOAFF. NON BISOGNA AVER PAURA DI ATTRAVERSARE IL MONDO.
Giacomo Kahn
da: Shalom, maggio
2010
Elio Toaff, rabbino capo emerito della Comunità di Roma, cita il
celebre detto del grande Maestro hassidico Rabbi Nachman di
Breslav. Nella lunga intervista concessa a Shalom in occasione
del suo 95mo compleanno confessa ridendo: “Ho commesso un solo
peccato nella mia vita, ho rubato un carro armato tedesco e l’ho
inviato in Palestina”.
L’età non lo ha abbattuto ed Elio
Toaff, la più fulgida e illustre personalità vivente
dell’ebraismo italiano, ha deciso di interrompere un forzato
riposo dovuto a due dolorose fratture per concedersi in una
lunga intervista a Shalom, in occasione dei suoi 95 anni.
Ci accoglie con un grande sorriso, in un salotto tappezzato di
simboli e documenti (menoroth,
mezzuzzoth, ketubot),
di libri, di fotografie (spicca nella libreria quella del rebbe
dei Lubavitch Menachem Mendel Schneerson, quasi a voler smentire
tutte le dicerie che negli anni lo volevano contrapposto al
movimento ortodosso dei Chabad), di stampe antiche fra cui
quella del vecchio tempio di Livorno (distrutto dai
bombardamenti) posto simbolicamente sull’architrave della porta
di ingresso.
Risponde con tranquillità e
pacatezza ma soprattutto con grande ironia – doti che gli sono
sempre state riconosciute – e non sono mancati momenti di vera e
propria ilarità, fin dall’inizio dell’intervista:
“Sono onorato
che una Fondazione porti il mio nome con l’obiettivo di
diffondere la Cultura ebraica, una cultura che a volte però non
hanno nemmeno gli stessi ebrei”.
L’ironia di Rav Toaff, a volte un
vero e proprio disincanto, nasce non solo dalle sue radici
toscane, dalle esperienze anche drammatiche vissute (risparmiato
sul ciglio della fossa stava per essere fucilato dai nazisti),
dalla profonda cultura anche umanistica, ma soprattutto come lui
stesso confessa “dall’aver sempre vissuto in
mezzo alla gente anche e soprattutto la più umile e la più
semplice. Bisogna fare attenzione: a volte i rabbini stanno
troppo dietro le cattedre”.
Come è nata l’idea di diventare rabbino? Lei avrebbe potuto, ad
esempio, intraprendere una carriera giuridica?
E’ vero, avevo preso la laurea in giurisprudenza a Pisa, ma
avevo davanti a me l’esempio di mio padre, capo rabbino di
Livorno, e sentivo che quella era la mia missione. E da mio
padre ho ereditato una certa concezione dell’ebraismo italiano
aperto e tollerante, fatto di usi, di costumi, di tradizioni e
che oggi vedo sempre più affievolirsi verso l’accoglienza di
nuovi modelli e di nuovi usi.
Suo padre, Alfredo Sabato Toaff, è stato un personaggio
straordinario di statura internazionale, grecista di chiara fama
e allievo di Giovanni Pascoli. Come era come padre?
Era un padre tutt’altro che burbero, anzi era affabile, aperto,
disponibile al dialogo con i figli e gli studenti. Anche per
questo casa nostra era frequentata da giovani che venivano da
ogni parte. Sono stati gli anni, ad esempio, in cui ho costruito
un’amicizia che non si è più sciolta con il Presidente Carlo
Azeglio Ciampi.
Dovendo oggi giudicare, pensa che sia più difficile il ruolo di
padre o quello di figlio?
E’ meglio essere nonni, liberi da ogni peso e da qualsiasi
responsabilità.
La sua famiglia era ovviamente molto osservante. Come si viveva
la fede? C’era allegria o era più forte il timore del giogo
divino?
Era una religiosità vissuta con allegria,
nella quale non è mai mancata la discussione, il dibattito, il
confronto delle idee e delle opinioni. In quell’ambiente ho
imparato che anche con le persone che ti sembrano apparentemente
lontane nelle idee e nei valori si può trovare, con il dialogo e
con la perseveranza, un piano comune per intendersi.
La generazione di suo padre è la
generazione di altre altissime figure come Shemuel Zvi
Margulies, Dante Lattes, Elia Benamozegh, Dario Disegni e poi
successivamente di Menachem Emanuele Artom, Alfredo Ravenna,
David Prato, Raffaele Cantoni, Carlo Alberto Viterbo. I rabbini
dello scorso
secolo erano diversi da quelli di oggi?
Ogni generazione ha i suoi rabbini, anche se non tutti sono
dello stesso calibro e questo spesso non può che derivare dal
contatto con la società dalla quale non bisogna astrarsi ma
nella quale bisogna vivere, nella quale bisogna immergersi
profondamente. La società di oggi mi appare forse con un minor
senso del divino perché ha perso la spinta ideale che
caratterizzò la nostra generazione, uscita da immense tragedie e
lutti.
Si può quindi fare a meno di Dio? Si può vivere senza Dio o
senza un sentimento religioso?
Io non potrei.
Dopo l’esperienza di capo rabbino ad Ancona e a Venezia, nel
1951 alla relativa giovane età di 36 anni divenne capo rabbino
della più importante comunità italiana. Perché il Consiglio
scelse lei? Non ebbe paura di una così grande responsabilità?
Infatti, non volevo diventare capo rabbino di Roma. Fu Raffaele
Cantoni che mi ci costrinse, senza alcuna possibilità di dire
no. Non mi sono poi mai chiesto perché avessero scelto proprio
me.
E’ vero che subito dopo la nomina chiamò Dante Lattes per avere
qualche consiglio?
Si. Mi disse di non aver paura di quello che poi mi sarebbe
venuto incontro, ed aveva proprio ragione. Sono stati anni molto
complicati: la comunità dopo la razzia nazista, le deportazioni,
l’eccidio delle Fosse Ardeatine era praticamente a terra, sia da
un punto di vista morale, che di partecipazione, oltre che
ovviamente da un punto di vista economico con una qualità della
vita veramente scarsa. Quel monito, di attraversare il mondo, di
vivere la vita e le vicende umane senza aver paura, mi è sempre
rimasto nel cuore e nella mente. E’ lo stesso monito del grande
cabbalista Rabbi Nachman di Breslav quando insegnava che ‘il
mondo è come un ponte molto stretto che si deve attraversare
senza avere alcuna paura’.
Perché non chiese un consiglio anche a suo padre?
Perché non me lo avrebbe dato, ma mi avrebbe detto: scegli e
comportati secondo gli insegnamenti che hai ricevuto.
A 36 anni diventa il rabbino più importante d’Italia di una
comunità lacerata da profonde contraddizioni: con la più lunga
storia e tradizione italiana, i suoi minaghim, ma anche con un
livello di osservanza bassissimo. Ad esempio la
casherut era seguita
da una piccolissima minoranza.
E’ vero. Pensi che in occasione della mia investitura fui
invitato ad un rinfresco da un’importante famiglia e trovai al
centro della tavola un bel maiale, mentre per me avevano
riservato un vassoio in un angolo di un tavolino. Per educare al
rispetto della Torà, per diffondere cultura e conoscenza, per
far crescere l’osservanza delle mitzvot c’è voluto tempo,
pazienza, ma soprattutto l’aiuto e la collaborazione di tutti i
miei rabbanim. E’ anche per questa ragione che ho dedicato la
maggior parte del mio tempo e del mio impegno all’educazione,
alla formazione di nuove generazioni, agli studenti e ai ragazzi
dai quali, ancora oggi, ricevo commoventi attestazioni di amore.
E’ stata un’attività che ho sempre considerato fondamentale.
Lei è stato un rabbino moderno, oltre che per le sfide legate
alla contingenza, anche come sostenitore dell’idea sionistica,
non soltanto collaborando con Ada Sereni alla “immigrazione
illegale” (Aliyà Beth) verso la Palestina, ma ospitando in casa
i profughi provenienti da tutta Europa, raccogliendo soldi,
nascondendo persino armi.
Si è vero. Venezia era il luogo di attività delle
Alyot clandestine e
da lì venivano organizzati i trasporti per la Palestina. Io
stesso nascosi sia persone che armi nella cantina, armi che
sarebbero poi dovute essere spedite per fornire l’Haganà. Ma il
mio vero capolavoro è stato il furto – un peccato di cui non mi
sono mai pentito – di un carro armato tedesco ‘Tigre’ che era
stato abbandonato nelle campagne modenesi. Doveva essere
demolito, ma la Palestina aveva un disperato bisogno di
armamenti pesanti e allora io camuffai il carro armato e lo
spedimmo in nave facendolo passare come attrezzatura agricola.
E’ così che giunse a Haifa il primo carro armato del futuro
esercito di Israele. Ma non ero solo io ad essere sionista, lo è
stata tutta la mia famiglia. Due miei fratelli partirono per la
Palestina nel 1938 e sarei partito anche io se mio padre non mi
avesse fermato con le parole: “un rabbino non abbandona la sua
comunità”.
La sua modernità, la sua capacità di essere diventato
personaggio pubblico, corrisponde anche - per così dire - ad un
primato negativo: è stato il primo rabbino italiano a dover
vivere sottoscorta.
Non è un bel primato. Già negli anni ’50 la comunità dovette
sostenere il neo fascismo che imbrattava con scritte
antisemite le vie di Roma. Tutto iniziò poi quando il mio
nome fu trovato in alcuni documenti in Libano. Mia moglie
della scorta non ne poteva più, perché non aveva quasi più
vita privata e non poteva essere libera di uscire con me,
anche solo semplicemente per fare degli acquisti.
L’intervista è finita, anche se le domande sarebbero ancora
tante e il desiderio di ascoltare il ‘moreno’ (il nostro
Maestro) non si esaurisce in una chiacchierata di circa
un’ora: tanti sono i ricordi e le curiosità che vorrebbero
essere esaudite. Ci lascia con un sorriso ironico e con
un’ultima brillante battuta: “Sa, mi sto preparando per la
grande serata del 3 maggio (quella in cui verrà presentata
la Fondazione che porterà il suo nome, ndr.): sto
allenandomi. Chi sa quante mani dovrò stringere”.