NOI, POPOLO DI ISRAELE, PROTESTIAMO E ACCUSIAMO
Bruno Zevi
da: Il Tempo,
11ottobre 1982
Testo integrale del discorso pronunciato da Bruno Zevi, allora
Consigliere del Comune di Roma, in Campidoglio all’indomani
dell’attentato del 9 ottobre 1982 alla Sinagoga Maggiore di Roma
a nome della Comunità Israelitica di Roma
L’antisemitismo ha una storia
millenaria, ma quello culminato nella strage di sabato scorso
alla nostra sinagoga ne ha anche una specifica, le cui
componenti furono denunciate qui in Campidoglio nell’ottobre
1976, esattamente sei anni
fa. Qualcuno di voi forse ricorda quell’avvenimento.
Giulio Carlo Argan era stato eletto
da poche settimane sindaco di Roma. Si avvicinava il 16 ottobre,
trentatreesimo anniversario del giorno in cui i nazisti
accerchiarono il ghetto e 1.259 ebrei furono deportati. Argan
volle che la ricorrenza fosse celebrata in Campidoglio, e questo
costituì l’occasione per esaminare le cause di un nascente
antisemitismo, manifestatosi poco tempo prima con il lancio di
bottiglie incendiarie contro la sinagoga, in strumentale
concomitanza con un comizio di sinistra.
Furono spregiudicatamente
individuate tre cause, dirette e indirette, di questo nuovo
antisemitismo.
La prima riguardava lo Stato d’Israele, la campagna
antisionista, già allora estesasi in maniera abnorme e
velenosa. Avvertimmo
che l’antisionismo non era altro che una mascheratura
dell’antisemitismo, com’era e come è divenuto sempre più
evidente dai paesi arabi all’Unione Sovietica.
La seconda causa poggiava sul
secolare antisemitismo cattolico, che il Concilio Vaticano non
era riuscito a debellare, pur sollevando finalmente gli ebrei
dalla turpe condanna di popolo deicida. Rilevammo allora come
fosse urgente, per l’indipendenza e il carattere laico della
Repubblica italiana, procedere ad una profonda revisione del
Concordato firmato dal fascismo e dei relativi Patti
Lateranensi.
Terza causa la posizione marxista
sulla questione ebraica, posizione inquinata dall’«odio ebraico
di sé» di Carlo Marx, dall’ostilità di Lenin nei confronti del
bund ebraico, e dall’atteggiamento illuministicamente antisemita
di molti leaders che si richiamavano al marxismo. Chiedemmo
allora che, alla luce del pensiero di Gramsci, si pervenisse ad
una svolta decisiva del pensiero marxista ufficiale sulla
questione ebraica.
Sono trascorsi sei anni, e queste tre cause dell’antisemitismo,
già allora evidenti, non sono state rimosse. Anzi si sono
aggravate a tutti i livelli, dalle scuole elementari
all’università. Dalle fabbriche ai palazzi del potere economico
condizionati dai petrodollari.
Se gli ebrei romani, l’altro giorno
e ieri, hanno scelto di vivere il loro lutto da soli, rifiutando
lo spettacolo di una passerella di uomini politici, di
giornalisti e di intellettuali, che si offrivano di venire in
ghetto per esprimere il loro sdegno e la loro solidarietà, è
perché ritengono che non sia oltre accettabile una solidarietà
che si concreta soltanto quando ci sono ebrei morti, bambini di
due anni assassinati.
E’ gravissimo dirlo, e per me
liberal-socialista particolarmente angoscioso, ma
quanto è accaduto l’altro giorno nella tragica realtà era stato
prefigurato, quasi simulato qualche mese fa, durante una
manifestazione sindacale. Tra ignobili urla «gli ebrei al rogo!»
e «morte agli ebrei!», dal corteo sindacale era stata
scaraventata una bara contro la lapide della sinagoga che
riporta i nomi dei martiri dei campi di sterminio e delle Fosse
Ardeatine. Alle proteste contro tale aberrante,
preordinato, inconcepibile episodio di delirio antisemita fu
risposto in maniera sofisticata ed equivoca, naturalmente
deplorandolo ma capziosamente spiegandone i moventi con la
politica dello Stato d’Israele. Ennesima conferma che
dall’antisionismo si passa automaticamente all’antisemitismo.
Quella bara simbolica oggi è
diventata reale. Contiene un bambino crivellato di colpi, caduto
insieme ad oltre trenta persone all’uscita della sinagoga.
Non può quindi meravigliare che,
dopo un’indiscriminata campagna contro lo Stato e il popolo di
Israele e le comunità della diaspora, dopo gli attacchi feroci
ed isterici contro i cosiddetti «olocausti», stermini ed eccidi
che gli israeliani avrebbero compiuto, gli ebrei di Roma si
siano chiusi per due giorni in un silenzio peraltro
politicamente significativo.
In questi mesi, hanno avuto
pochissimi veri amici, tra i partiti minori dello schieramento
democratico. I partiti di massa, la stampa con rarissime
eccezioni, la radio e la televisione di Stato in tutti i suoi
canali hanno invelenito l’atmosfera e creato un terreno fertile
per l’antisemitismo. Di fronte ai fatti, le lacrime esibite oggi
sembrano davvero tardive.
E’ inutile affermare che in Italia,
che a Roma non c’è antisemitismo. Al massimo, si può dire che
non c’era mai in questa forma virulenta, perché neppure durante
il fascismo, neppure durante l’occupazione nazista, furono
attaccate le sinagoghe come è accaduto a Milano e a Roma. Ma chi
di voi ha ascoltato le radio e le televisioni private nelle
scorse settimane è rabbrividito di fronte alla incredibile
quantità di testimonianze d’odio antisemita. Ancor più
inquietante il fatto che, a parte la radio e la televisione dei
radicali, ben poche trasmittenti private ribattevano e
combattevano questo livore.
Dopo la tragedia dell’altro ieri, i
giornali, le radio — e teletrasmissioni — le dichiarazioni di
uomini politici sono unanimemente solidali con gli ebrei, ma non
c’è giornale, né radio, né televisione, né uomo politico che
abbia detto: «Una parte, sia pur minima e indiretta, della
responsabilità di quanto è accaduto ce l’ho anch’io!».
Perciò noi accusiamo:
1) II Ministero degli Interni e i dirigenti delle forze
dell’ordine per non aver apprestato dispositivi difensivi nel
ghetto e intorno alla sinagoga, malgrado fossero stati
insistentemente richiesti, a seguito delle continue minacce
dirette agli ebrei. (Durante una cerimonia in sinagoga) è stato
osservato che l’Italia manda i suoi bersaglieri in Libano per
proteggere i palestinesi, ma non protegge i cittadini ebrei
italiani;
2) il mondo cattolico per il modo pomposo in cui ha ricevuto
Arafat in Vaticano e per aver quasi ignorato che il massacro nei
campi palestinesi è stato compiuto da cristiani, mentre
all’esercito di Israele può essere ascritta, se provata la sola
colpa di una corresponsabilità morale,
3) la classe politica e sindacale, con ben poche eccezioni, da
alcune delle massime autorità dello Stato ai leaders di molti
partiti e a numerosi amministratori locali, per il comportamento
tenuto durante la visita di Arafat a Roma, per la gara di
strette di mano, di abbracci, di baci, di relative accoglienze
fraterne verso il capo di un’organizzazione che, se oggi si
presenta con un ramoscello d’ulivo, nel passato ha perpetrato
innumeri stragi terroristiche contro Israele e contro gli ebrei,
e non ha ancora riconosciuto il diritto all’esistenza dello
Stato d’Israele, anzi anche ultimamente ha confermato di volere
non la pace, ma una
« guerra santa»;
4) la stampa e la radiotelevisione che, salvo rare eccezioni,
hanno distorto fatti e opinioni, confondendo volutamente lo
Stato di Israele con la politica del suo attuale governo, con il
popolo e le comunità ebraiche, determinando un clima
incandescente, entro il quale si è inserita la strage dell’altro
giorno;
5) i molti, moltissimi intellettuali, giornalisti o meno, che in
questi mesi si sono divertiti ad esaminare i risvolti
psicologici, le «malattie» di Israele, i moventi segreti della
politica di Begin e di quella dei suoi oppositori, facendo
sfoggio di elucubrazioni e sofismi tutti adducenti, magari
contro il loro proposito, all’antisemitismo.
Noi accusiamo.
In un mondo sconvolto dalla violenza, con 30.000 persone al
giorno che muoiono per fame, i nostri mezzi di informazione di
massa hanno dato il massimo rilievo solo alle azioni
dell’esercito israeliano. I morti in Afganistan, i morti in
Iran, i morti in Siria, le decine di morti in Libano dopo
l’arrivo dei palestinesi, i bambini della Galilea bombardati,
questi morti non valgono, e anche i terroristi palestinesi sono
considerati mansueti, pacifici: avevano immensi arsenali di armi
in Libano, ma solo per giocare. Signori consiglieri regionali,
provinciali e comunali; noi siamo sinceramente commossi dalle
manifestazioni di solidarietà emerse in quest’aula. Lo siamo
come ebrei romani, e lo siamo ancor più in quanto cittadini
italiani che sanno come l’antisemitismo sia un preciso
sismografo della civiltà di un paese.
Nessuno ci chieda di distinguerci
dal popolo di Israele, di accettare una differenziazione
manichea tra ebrei e israeliani. Noi apparteniamo al popolo di
Israele che comprende le comunità disperse in ogni parte del
mondo, a cominciare dalla più antica, quella di Roma, e la
comunità di coloro che hanno fatto ritorno alla terra degli avi.
Inoltre, lo Stato di Israele, indipendentemente dal giudizio che
possiamo dare sul suo governo, vale per un’altra ragione: perché
è uno Stato democratico esemplare.
In quale altro Stato sarebbe
ammesso che militari, anche di alto grado, rifiutassero di
combattere una guerra di cui non condividono le finalità e,
invece di essere processati e fucilati per tradimento, sono
tranquillamente mandati a casa?
In quale democrazia in stato di
guerra si istituirebbe una commissione d’inchiesta sul
comportamento dell’esercito?
In quale democrazia in stato di
guerra si potrebbe svolgere una manifestazione di 400.000
persone che protestano contro la guerra, senza alcun atto
repressivo da parte del potere?
E concludo. L’antisemitismo è
esistito per duemila anni, non dal 1948, dalla proclamazione
dello Stato di Israele. Non crediamo all’antisionismo filosemita:
è una contraddizione in termini.
Abbiamo espresso con franchezza la nostre accuse. Siamo
preoccupati, allarmati come ebrei, come antifascisti, come
democratici, come uomini della sinistra. L’antisemitismo, come
tutti avete affermato, è un segnale inequivocabile di corrosione
democratica. Ebbene, in Italia, a Roma l’antisemitismo emerge in
forme inedite nella storia del nostro paese. Era un segnale già
chiaro sei anni fa, ma oggi esplosivo. Insieme, teniamone conto
e corriamo ai ripari.