Tullia Zevi: Le minoranze sono il sale della democrazia
Piera Di Segni
da:
Pagine Ebraiche, marzo 2011
“La famiglia è l’ubi consistam, ti dà lo spessore, ti dà il
senso di appartenenza, ti dà un senso di dare e ricevere, ti dà
tutto la famiglia… Con i nipoti ho un rapporto meraviglioso,
sono la vita che continua, l’allegria, con il loro interesse per
tutte le cose”. Non fu un’intervista come le altre, né fu
un’intervista semplice: era il gennaio 2006 e l’obiettivo era
quello di realizzare un profilo di Tullia Zevi per un servizio
di Sorgente di vita. Ci accolse con la consueta cordialità nella
bella casa in via del Portico d’Ottavia: ero già stata lì molte
volte, ma mi colpì ancora una volta per l’originalità e
l’eleganza.
Mentre il cameraman
e il fonico preparavano il set e le luci ci intrattenemmo con
lei insieme ad Alessandra Di Marco, la collega regista della
Rai. Mi chiese un consiglio sulla blusa da indossare – meglio
quella sul viola- blu? Quella rosa di seta “spara” troppo in Tv?
E quali orecchini? Poi un po’ di cipria per togliere il lucido
dal viso. Civetterie di una signora di 87 anni. Più che
giornalistica o televisiva l’atmosfera era salottiera. E più che
un’intervista fu un racconto.
“Mamma era una
Bassani, cugina di Giorgio Bassani, e la sua famiglia era più
tradizionale di quella di mio padre. Papà (l’avvocato Giuseppe
Calabi) era un laico liberale, era stato anche massone,
repubblicano. Grazie a lui in tempo di fascismo mi sono accorta
molto presto che esisteva anche l’antifascismo e che gli ebrei
erano numerosi nelle sue fila. Avevano formato un gruppo proprio
intorno a Toscanini, suo caro amico, e si riunivano in una
libreria, la Baldini e Castoldi, in Galleria”.
“In casa, eravamo
quattro figli (Enzo, Ornella, Tullia e Eugenio) e a tavola, di
ritorno da scuola, parlavamo di tutto. Un giorno – raccontava
divertita la signora Zevi, imitando le voci dei familiari – mio
fratello Eugenio, che essendo più piccolo era più sensibile alla
propaganda fascista, disse: ‘papà ma tu non credi che Mussolini
sia un grand’uomo?’ e papà guardando sul piatto rispose ‘per
adesso non ha fatto che delle fesserie’’’.
Fu la prima lezione
di politica, in una famiglia che cercava di dare il meglio a
tutti e quattro i figli: liceo, università, educazione musicale.
“Suonavamo tutti uno strumento: dopo i compiti, nel tardo
pomeriggio, mio fratello suonava il piano, mia sorella maggiore
l’organo che, se Dio vuole, andava a suonare nelle chiese; io
suonavo l’arpa e mio fratello piccolo il violino. Suonavamo
tutti contemporaneamente, ognuno nella sua stanza, una vera
cacofonia. E quindi botte e musica, si suonava e si litigava”.
L’educazione dei
fratelli Calabi comprendeva anche lo studio delle lingue. Per
questo nell’estate del ‘38, alla promulgazione dei primi
provvedimenti sulla razza, erano in villeggiatura in Svizzera
dove frequentavano anche dei corsi. “Stavamo facendo le valigie
per tornare a Milano quando papà telegrafa ‘aspettatemi che vi
raggiungo’. Arriva e dice ‘non si torna più’. Toscanini lo aveva
avvisato. Gli aveva detto, parlavano in milanese tra di loro, ‘Pepin,
ti te ciapen.’ Peppino, guarda che ti pigliano”.
Rimasero in Svizzera,
a Lugano, poi un anno in Francia, dove frequentarono i gruppi
dei fuoriusciti antifascisti. E nell’estate del ’39 si
imbarcarono dal porto di Le Havre verso New York. Tullia
interruppe gli studi universitari e si iscrisse al
conservatorio. “In America si capì subito che bisognava
lavorare. Per me l’arpa divenne uno strumento di lavoro: suonai
in orchestra, con Frank Sinatra e con Leonard Bernstein. Non era
difficile trovare lavoro, molti musicisti uomini erano in
guerra, e si guadagnava bene. Gli spettacoli di Sinatra erano
abbinati a un film, lui cantava tra una proiezione e l’altra.
Prima di ogni spettacolo entravo nella piattaforma
dell’orchestra per accordare. Una volta una ragazzina si infilò
come un gatto e mi disse ‘ti devo toccare perché tu sei vicina a
Sinatra’. ‘Ma sei matta’ dissi io. Conobbi allora per la prima
volta il fanatismo collettivo per un divo dello spettacolo. Che
poi Sinatra era un ometto da niente… Quella di Bernstein invece
era un’orchestra seria, sinfonica. Lui era un uomo di grande
cordialità, molto serio, molto coscienzioso, anche un bravissimo
pianista, con lui ho imparato molto”.
Il racconto di
Tullia Zevi proseguiva con vividi ricordi, i momenti importanti
del passato fissati per sempre. Così ricordava l’incontro con
Bruno Zevi a casa della cugina Serena, sposata con Franco
Modigliani, premio Nobel per l’economia nel 1985. “Mi avevano
detto ‘vieni a cena da noi, c’è una persona che è appena
arrivata dall’Italia’; quella persona era Bruno Zevi. Bruno
sosteneva che quando dissero ‘adesso deve arrivare Tullia Calabi’
lui avesse detto ‘adesso arriva mia moglie’: ma nemmeno ci
conoscevamo. Ci siamo sposati nella sinagoga spagnola-portoghese
sulla Settantesima strada nel ‘40”. Insieme gli Zevi erano
entrati nella Mazzini Society e avevano lavorato per la
propaganda antifascista. In quel periodo Tullia iniziò a
collaborare con una radio a onde corte rivolta soprattutto agli
italo-americani, e poi con la Nbc nelle trasmissioni per
l’Italia e per la Resistenza. Tornò nell’Europa liberata nel ‘46
come inviata del Religious News Service al processo di
Norimberga. La musicista si era ormai trasformata in
giornalista.
Al ritorno in Italia
nacquero i figli, Adachiara e Luca: famiglia, professione,
impegni sociali, un equilibrio difficile da mantenere. “Facevo i
salti mortali. Avevo capito che l’espressione di me stessa
passava attraverso il lavoro; l’autonomia, l’indipendenza, la
capacità di crescere delle donne, specialmente se avevano
impegni familiari, passava attraverso il lavoro”. Corrispondente
di varie testate e del quotidiano israeliano Maariv, Tullia Zevi
viaggiava in tutto il mondo. Seguì il processo Eichmann,
incontrò Golda Meir e Ben Gurion, papi e presidenti. Intervistò
Krushev, Nasser, Bourghiba, Senghor e Hussein di
Giordania.“Hussein aveva accettato di darmi un’intervista
sapendo benissimo chi ero. Era consapevole che sarebbe stata
pubblicata nei giornali di Israele: fu un segno che si potevano
aprire degli spiragli, capii che bisognava cercare il dialogo
con gli arabi”. Parallelamente al lavoro di giornalista negli
anni ‘50 Tullia Zevi iniziò il suo impegno nel mondo ebraico
italiano, spinta da Raffaele Cantoni, allora presidente
dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. “Un grande
ebreo e un grande antifascista che operò il passaggio
dell’ebraismo dal periodo fascista verso una società
democratica. Lui fu il mio grande elettore al secondo congresso
dell’Unione dopo la guerra (nel 1951): andava dicendo, in
dialetto veneziano ‘votè, votè per Tullia, la zè una dona ma la
capisse tutto’”. Fu l’inizio di un lunghissimo impegno
nell’Unione, prima come consigliere, poi come vicepresidente e,
dal 1983 al 1998, come presidente.
In quegli anni la
signora Zevi arrivava quasi ogni giorno all’Unione con un
appunto scritto a mano o battuto a macchina per un comunicato o
un discorso. E insieme ad Emanuele Ascarelli correggevano,
riscrivevano. Attenta a ogni parola, con competenza e diplomazia
cercava di conciliare le varie anime dell’ebraismo italiano,
fronteggiando anche i numerosi oppositori interni. Come Ufficio
stampa e come redazione di Sorgente di vita abbiamo avuto con la
signora Zevi una consuetudine professionale fatta anche di stima
e di affetto. Da lei abbiamo imparato molto, osservandola di
fronte a vicende gravi e importanti, dall’attentato alla
sinagoga di Roma alla visita di papa Wojtyla, dalla fuga di
Kappler al processo Priebke.
Uno dei momenti più
importanti fu la firma dell’Intesa tra l’Unione delle Comunità e
lo Stato italiano, con il presidente del Consiglio Bettino Craxi
il 27 febbraio 1987, che lei ricordava così: “Craxi era un
grande decisionista, un uomo molto spicciativo, capì che
l’Intesa era una cosa necessaria. Furono molto interessanti
anche gli scambi di vedute con i valdesi (che avevano già
firmato l’Intesa con lo Stato). Ricordo che presi tutti i nostri
testi di elaborazione dell’Intesa e andai a Torre Pellice.
Allora c’era un grande giurista, Giorgio Peyrot, e con lui
studiammo articolo per articolo mettendo a confronto le due
intese. Eravamo consapevoli che in un paese al 98 per cento
cattolico l’affermazione dell’esistenza dei diritti e dei doveri
di altre confessioni religiose era molto importante”.
Riflettendo sulla
situazione dell’ebraismo italiano aggiunse: “L’impressione è che
ci sia un arricchimento della consapevolezza del nostro
ebraismo. Specialmente nelle giovani generazioni c’è un
interesse in crescita. Io vedo la differenza tra l’impegno
nell’ebraismo della generazione dei miei figli e quella dei miei
nipoti”. “Seguo con estremo interesse e molto amore la vitalità
di questa minoranza che si rinnova continuamente. Penso che
questa continuità dell’ebraismo sia una grande lezione, questa
capacità di esistenza, di coesistenza e di tenacia nel mantenere
i propri valori. Nel mio impegno nell’ebraismo ho capito che le
minoranze sono il sale della democrazia perché attraverso il
modo in cui vengono recepite, accettate e garantite le minoranze
si misura la temperatura della democrazia di un paese”.
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