Moretto: Un eroe fra noi
Maurizio Molinari
da:
Alberto Di Consiglio,
Maurizio Molinari
(a cura di),
Il
ribelle del Ghetto. La vita e le battaglie di Pacifico Di
Consiglio, Moretto. Roma, 2009
Ogni gruppo, collettività, nazione
o popolo ha i propri eroi. Gli ebrei romani hanno avuto Pacifico
Di Consiglio, detto Moretto. Cresciuto senza il padre fra gli
stenti di una Comunità assillata dalla povertà, ribelle per
carattere e combattente per vocazione, Moretto è il giovane che
reagisce alle leggi razziali scegliendo di allenarsi a fare il
pugile, per difendere la propria libertà e in attesa dei
prevedibili scontri con i fascisti. Nella Roma in camicia nera,
capitale del regime di Benito Mussolini, gli ebrei vengono
espulsi dalle scuole, cacciati dai posti di lavoro, discriminati
sui luoghi pubblici ma Moretto resta a testa alta. Non abbassa
gli occhi di fronte ai gagliardetti del fascio che sfilano su
via Arenula, non accetta ingiurie personali e offese al popolo
ebraico. Reagisce sempre. E spesso in solitudine. Dopo l’8
settembre 1943, l’arrivo dei tedeschi e la razzia degli ebrei di
Roma da parte delle SS lo trasforma in un uomo braccato. Sfugge
in continuazione agli occupanti che gli danno la caccia
ricorrendo a ogni mezzo, incluse le spie. Viene arrestato ma
evade. In una cella di via Tasso è picchiato a sangue ma non
cede all’aguzzino che gli chiede nomi e indirizzi. Nel carcere
di Regina Coeli trova il momento giusto per beffare le guardie e
riuscire ad andare a farsi la barba. Ogni volta che lo prendono
tenta la fuga. Non si arrende mai all’ipotesi di finire inerme
nelle fauci dello sterminio. Evade dalle celle della polizia a
piazza Farnese lanciandosi dal secondo piano. Si getta dai
camion tedeschi sorvegliati da militari italiani, inseguito da
raffiche di mitragliatrice. Torna a Roma, a Portico d’Ottavia,
vi vive nascosto, quasi lo presidia, con i tedeschi a Roma. Per
lui è una sfida per la vita. Passeggia spavaldo per le vie della
città occupata come testimonia la foto della copertina di questo
libro. Uccide numerosi tedeschi con ogni arma a disposizione,
incluse le sue mani. Impara ad usare fucili e pistole, è un
resistente solitario di una Comunità falciata da deportazioni,
uccisioni, lutti e miseria. Non cede mai, dentro di sé si batte
con l’orgoglio dei Maccabei, gli eroi che difesero l’antico
Tempio di Gerusalemme dalle profanazioni ellenistiche. Oltre ai
pugni, con o senza guantoni, sa usare pistole e fucili tedeschi
strappati agli occupanti. Nel 1944 prende la tessera del Partito
d’Azione, è con i gruppi partigiani che sorvegliano i ponti sul
Tevere per impedirne la distruzione da parte dei tedeschi in
fuga. E quando le truppe alleate nel giugno 1944 entrano a Roma
gli va incontro, combatte con loro, aiuta i soldati americani a
liberarsi degli ultimi cecchini tedeschi. Sono giorni in cui la
lotta di liberazione costituisce il primo riscatto dal
nazifascismo rappresentando per Moretto una svolta che terrà
sempre con sé, assieme alla tessera delle associazioni degli ex
partigiani.
Le pagine de “Il ribelle del
Ghetto” raccontano il quotidiano eroismo di un ebreo romano che
non si è mai arreso all’inevitabilità dello sterminio, che ha
sempre creduto nel riscatto del popolo ebraico e nella sua
straordinaria capacità di sopravvivere. Lo ha fatto anche grazie
a Fortunata Di Segni, la giovane ragazza di cui incise il
soprannome “Ada” su un cucchiaio di legno nei giorni più bui
passati a Regina Coeli che dopo la guerra ritrovò, corteggiò
rispettando il galateo dell’epoca e sposò, trasformandola nella
dolce e determinata “Anita”, come venne soprannominata dai tanti
che vedevano in Moretto il Garibaldi di Portico d’Ottavia. A
guerra finita la Comunità è a pezzi, somma vittime e disastri, e
Moretto è uno dei protagonisti della ricostruzione. Raccoglie
intorno a sé i reduci dello sterminio, e i loro figli, in
maniera da potersi opporre alle scorribande dei nostalgici
fascisti che a breve distanza dalla cocente sconfitta rifiutano
di arrendersi alla storia e tentano ancora di fare irruzione a
Portico d’Ottavia per colpire gli ebrei. Moretto è il leader
naturale di chi difende la Piazza dai vecchi e nuovi aggressori
e quando Elio Toaff diventa il nuovo Rabbino Capo della Comunità
trova in lui l’interlocutore che serve per progettare una
ricostruzione che ha il suo pilastro più solido nel gruppo dei
volontari che garantiscono la sicurezza di sinagoghe, scuole e
luoghi di ritrovo, spesso entrando in contrasto con la dirigenza
comunitaria di allora, ancora imprigionata nei timori del
passato.
Questi volontari sono “I ragazzi di
Moretto”, come li chiama Mino Di Porto nel giorno del
Limud, e questo libro
ne raccoglie le testimonianze, li fa parlare come mai hanno
fatto prima per raccontare una stagione di valori comuni,
coraggio personale e sacrifici famigliari che rappresenta un
patrimonio di esempi per le nuove generazioni perché testimonia,
come osserva il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, la “lotta contro
Amalek”.
Se è Pacifico a raccontare se
stesso nel prezioso documento costituito dall’intervista
registrata dalla Shoah Foundation è grazie all’infaticabile
passione di Alberto, figlio di Moretto, della moglie Miriam e
del figlio Daniele che è stata possibile la raccolta delle
interviste che ci accompagnano dentro il mondo di Moretto, così
come la realizzazione del DVD allegato a questa pubblicazione.
Scopriamo così dall’ex deportato Alberto Sed che l’eco delle sue
azioni di sfida ai tedeschi era arrivata anche agli ebrei romani
detenuti ad Auschwitz e che tale capacità di battersi a difesa
degli ebrei fu il motivo che portò Rav Toaff a dire a Moshè
Dayan, il generale israeliano eroe della Guerra dei Sei Giorni,
che Pacifico Di Consiglio era “il nostro Ministro della Difesa”.
Per capire il perché di questa definizione bisogna ascoltare
Giacomo Di Segni, detto Mugnetta, che racconta quanto avvenne un
giorno del 1955 «quando stavamo a via del Teatro Marcello, venne
un uomo che si chiamava “Biscotto”, si occupava in Comunità di
amministrazione, mi disse: «Giacomo guarda stanno venendo dalla
parte dell’anagrafe un gruppo di squadristi, di fascisti».
Organizzammo in dieci minuti la difesa. Loro ebbero la forza di
entrare nel ghetto ma dal ghetto non sono più usciti. Avevamo di
che difenderci, cose rudimentali, come corpi contundenti, ma
efficaci. Li abbiamo fatti scappare». In quegli anni le
tensioni, gli scontri erano all’ordine del giorno. Valerio Di
Porto racconta un altro episodio nel quale “il clima in Piazza
era di furore”: «Erano passati pochi anni dalla Shoah e questi
ricominciavano, scoppiò una rissa enorme, accanto a me c’era un
certo Lello che dalla nascita aveva un problema alla gamba,
eppure era lì, cadde per terra, lo aiutai ad alzarsi, un
fascista mi colpì alla schiena ed ebbi la quarta vertebra rotta.
Mi ha causato problemi a vita». I volontari servivano per
difendere il quartiere ebraico. Con il passare degli anni i
nemici si moltiplicarono, si aggiunsero prima l’estrema sinistra
antisionista e poi i terroristi, così come sorsero altre
esigenze, a cominciare dalla difesa degli ebrei ovunque fossero
minacciati. Mario Mieli racconta una sveglia all’alba per andare
all’aeroporto di Fiumicino «perché partiva una delegazione del
Pci guidata da Enrico Berlinguer e dovevamo consegnare una
petizione per gli ebrei in Urss, la consegnò Moretto proprio a
Berlinguer». In Urss o nei Paesi arabi ovunque gli ebrei
soffrivano, erano perseguitati o discriminati Moretto sentiva
che toccava, a lui ed agli ebrei romani tutti, essere presenti,
non lasciarli soli, battersi contro gli oppressori di turno come
era avvenuto con i nazisti. Angelo Sermoneta, detto Baffone,
descrive così Pacifico: «Aveva lo sguardo da faina, da sveglio,
da persona veloce, spesso gli dicevo “Moretto ma c’è da fare
questo?” Ci capivamo al volo, poche parole, e si faceva
esattamente quello che c’era da fare, magari io lanciavo una
idea e lui con gli occhi mi dava l’assenso, ci capivamo. Ricordo
di una riunione in Comunità per una iniziativa che ebbe
risonanza nazionale, una grande manifestazione, tutti si
complimentarono con Pacifico, noi eravamo lì, era giusto che si
prendesse i meriti, perché ha dovuto veramente lottare per far
capire a tutti dei pericoli o delle necessità a cui andavamo
incontro». Un momento importante è la nascita dell’Associazione
genitori scuola, l’AGS, per garantire la sicurezza degli alunni.
Lello Vivanti ricorda: «In certi momenti di tensione io, insieme
ad altri, dormivamo dentro la scuola, si pattugliava fino a
tardi il perimetro, anche dell’ORT (liceo ebraico), la mattina
molto presto si facevano altri giri, si controllava che le porte
esterne fossero tutte chiuse. Ci voleva molto tempo, le scuole
erano importanti. Era un impegno enorme, con Pacifico si
iniziarono a cercare delle persone valide. Erano cinque, sei,
che dovevano mettersi in contatto con i genitori, convincerli a
fare questo servizio, dall’ingresso all’uscita, in maniera
stabile, ci furono una quantità di riunioni e contatti, alla
fine queste persone si presero l’incarico». Ciò che accomunava
tutti i volontari attorno a Moretto era la “convinzione che la
sindrome del 16 ottobre era alle spalle” riassume Luciano Tas
mentre Enrico Modigliani sottolinea l’impatto sociale della
nascita del “gruppo” che innescò una dinamica di unificazione
fra identità differenti: «Venivo da un ambiente diverso rispetto
alla base, quello che caratterizzava allora erano le differenze
socioeconomiche, il lavoro, tra i ricchi negozianti del centro e
gli ebrei che lavoravano sui banchi, anche il dialetto giudaico
romano, che molti parlavano, ed altri non capivano. Sicuramente
le attività che svolgevamo hanno accelerato una maggiore
comprensione perché lavoravamo assieme». Renzo Gattegna,
presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si
sofferma su questo aspetto: «Ha avuto l'intelligenza di capire
fin dagli anni Cinquanta e Sessanta come fosse importante la
sicurezza della Comunità, ha lavorato per decenni con molte
generazioni di volontari, ha fatto un lavoro eccezionale perché
attraverso la difesa del popolo ebraico ha creato una maggiore
unità tra le varie componenti della Comunità, indipendentemente
dai quartieri di provenienza, dall'età e da altre differenze».
Negli anni Ottanta e Novanta Moretto resta sulla breccia,
l’emergenza sono le intolleranze antisioniste e antisemite ma
anche la necessità di essere in prima linea nella difesa
dell’esistenza di Israele. Come avviene durante la Prima Guerra
del Golfo quando, con lo Stato ebraico bersagliato dai missili
di Saddam Hussein, incoraggia gli studenti guidati da Riccardo
Pacifici a portare le bandiere d’Israele a Piazza San Pietro,
puntando ad attirare l’attenzione di Giovanni Paolo II, sebbene
nella dirigenza comunitaria c’è chi si oppone. «Moretto ci disse
di andare avanti, come fece anche Rav Toaff» ricorda Riccardo
Pacifici, oggi presidente della Comunità. Roberto Coen confessa
di «aver ricevuto da Moretto i valori della Resistenza e della
difesa ad oltranza di Israele, fondamentali per la formazione
della mia identità ebraica» e sottolinea l’importanza “dei
metodi” ovvero “discrezione e riservatezza”. Gianni Zarfati, che
oggi è il responsabile della sicurezza della Comunità, parla di
«un leader fatto di un carisma conquistato sul campo» perché
«Pacifico è uno che sempre si è esposto in prima persona, sempre
avanti, mai un passo indietro, stava sul campo, sempre a
contatto con i giovani, non era uno da scrivania». Fino
all’ultimo l’animo di Moretto è rimasto quello del compagno di
pugilato di Angelo Di Porto, nella palestra di piazza Lovatelli
o sul balcone di casa dove si allenavano perché “volevamo essere
all’altezza di poterci difendere”. Nulla da sorprendersi se con
l’avvicinarsi della fine, Pacifico diede disposizione di mettere
una bandiera d’Israele sulla sua bara, quando sarebbe venuto il
momento. Le pagine seguenti raccontano anche un altro aspetto
della sua vita, la professione di rappresentante. Dario Coen,
che iniziò con lui, ricorda un dettaglio rivelatore: «Aveva una
scrivania piena di carte e guai a chi le toccava! Aveva le sue
penne, la sua cartoleria, un ordine che metteva sicurezza,
perché tutto era al posto giusto, non bisognava mettere
disordine, ma non perché fosse geloso, solo che tutto doveva
avere spazio ed ordine, in modo che al momento opportuno se ne
potesse usufruire». Eroismi quotidiani, forza di carattere e
sacrifici senza fine
non sarebbero stati possibili senza Ada. Alberto
Astrologo, detto Arte, lo spiega così: «Se non ci fosse stata
Ada… le nostre mogli hanno il pregio di seguire i mariti quando
comprendono l’importanza di quello che stanno facendo. Ada è
stata una di queste perché Moretto ha perso molto, sia nella
famiglia che nel suo lavoro, per seguire le cose di interesse
ebraico». I parenti, amici e testimoni intervistati per
quest’opera costituiscono solo un tassello di un più ampio
mosaico di esperienze che sono, tutte allo stesso modo,
patrimonio dell’intera Comunità di Roma.
L’ultima parte del volume raccoglie gli interventi del
Limud e le fotografie
che raccontano molti degli episodi narrati dai testimoni,
protagonisti di una generazione di volontari nei confronti dei
quali la Comunità intera resta in debito di riconoscenza.
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