Gli anni del Circolo Weizmann nei miei ricordi
Elio Toaff
da: Bice Migliau (a cura
di), Il Circolo Weizmann. Identità e cultura nella vita della
Comunità Ebraica di Roma degli anni
’60-’70, Roma, 2009
Rivedere
a distanza di oltre quarantacinque anni i testi delle
conferenze, le fotografie, le pagine della stampa ebraica
che parlano
dell’attività del “Circolo
di Cultura e Coscienza Haim Weizmann” può fare un certo effetto
perché non tutti coloro che hanno presente l’immagine della
Comunità di oggi conoscono o ricordano le vicende e gli aspetti
della vita della collettività ebraica romana negli anni ’60.
Sono molto lieto che questa pubblicazione del Centro di cultura
ebraica permetta di iniziare a ricostruire aspetti storici e
culturali poco noti, di cogliere l’atmosfera di quegli anni
attraverso il dibattito interno ed esterno alla Comunità.
Ricordo Gianfranco Tedeschi che fu
il promotore del Circolo Weizmann, e poi presidente della
Comunità come uomo di grande intelligenza, sensibilità e
cultura, con cui era piacevole parlare, anche se talvolta le
nostre rispettive posizioni non coincidevano e quindi ognuno
manteneva ben fermo il proprio punto di vista, ma l’educata
discussione che ne scaturiva costituiva sempre un arricchimento
per entrambi.
Forse il segreto del successo del
Weizmann è stato proprio questo: Tedeschi e quanti collaborarono
con lui nel cercare di rivitalizzare la vita comunitaria
aiutando la collettività nell’elaborazione della propria
identità, attraverso dibattiti molto vivaci e articolati su temi
sui quali non si era mai discusso prima, riuscivano ad
avvicinare persone tra loro diverse per età e formazione, anche
molto lontane dall’ebraismo. I frequentatori insolitamente
numerosi venivano attratti e stimolati a partecipare perché
trovavano in queste riunioni una libertà di esprimere il proprio
pensiero che forse non immaginavano. In seguito alle conferenze
del Circolo ricordo in particolare i miei colloqui con molti tra
i partecipanti che non conoscevano l’ebraismo così come era, ma
lo scoprivano attraverso questi incontri.
I primi decenni del mio rabbinato
furono del resto difficili ed avevo esitato a lungo prima di
accettare l’incarico:
la Comunità ebraica romana aveva alle spalle
decenni di difficoltà sociali ed economiche, dall’uscita dal
ghetto, alle persecuzioni fasciste e naziste, al lento ritorno
alla vita del dopoguerra; il livello culturale sia ebraico che
generale era complessivamente basso e molti si erano allontanati
dalla vita comunitaria.
Accettare l’incarico di rabbino
capo fu per me una specie di sfida, cosciente dell’impegno e
della capacità di mediazione che richiedeva. In questo mi sono
sempre attenuto all’insegnamento di mio Padre
z.l. che mi diceva:
«Quando tu sei convinto di quello che dici e che fai, e questo
tende verso il bene, tu hai il dovere di farlo nonostante le
difficoltà, gli ostacoli e ciò che vi si oppone».
Oltre all’esperienza del Weizmann, ricordo in particolare a metà
degli anni '60 gli sforzi per rendere più partecipativa la vita
comunitaria, l’istituzione della Consulta, l’estensione del voto
alle elezioni comunitarie e dalla possibilità di essere elette
alle donne…
di cui fui strenuo difensore, ricevendo numerosi attacchi dai
dirigenti più conservatori.
Non meno severe furono nei miei
confronti le critiche di alcuni per aver invitato al Weizmann
per la prima volta esponenti cattolici e protestanti a discutere
con noi su temi di interesse comune, e dire che si era negli
anni subito dopo il Concilio Vaticano II e un’apertura al
dialogo era senz’altro da sostenere.
Per concludere ritengo che l’esperienza del Weizmann descritta e
documentata in questa pubblicazione sia stata assai valida per
gli aspetti cui ho accennato: ne aggiungerei uno che non mi pare
affatto trascurabile: l’aver contribuito a formare una
generazione di persone attive a livello di dirigenza nella vita
della Comunità, dell’Unione e delle istituzioni ebraiche.