LETTERA APERTA AL COLONNELLO GHEDDAFI
Herbert Pagani
da: Informazione Corretta
del 12 giugno 2009
Ci sono paesi disarmati dalla
storia. Incapaci di offrire ai loro popoli, contro un misero
presente, la consolazione di un glorioso passato. Incapaci
perfino di trarre profitto dalle loro disgrazie, di trasformare
gli oltraggi subiti in leggende esportabili. Paesi che, privi di
un fiume per benedire le loro terre, di un eroe per difenderle,
di un poeta per cantarle, sono affetti da anonimato cronico.
Il paese in cui son nato è fra
questi. Prima che il suo nome fosse propulso nel cielo dei
media, dai capricci congiunti del petrolio e di un tiranno,
quest’immenso territorio non è stato, per 2.000 anni, che una
fabbrica di dune. Uno zero, un'amnesia, un sacco di sabbia
sventrato e disperso su 1.759.000 chilometri quadrati di
mancanza d’ispirazione del Creatore, una sala d’aspetto
immemorabile dove non ha mai degnato fermarsi il treno di
un’epopea, un vuoto, soffocante e torrido che separava, come una
punizione, l’Egitto della Tunisia. Oggi ancora, benché
l’afflusso di petrodollari gli abbia permesso di passare
dall’oscurità all'oscurantismo, questo paese resta, agli occhi
del mondo, l’anticamera delle Piramidi, il retrobottega dei
gelsomini. Culturalmente parlando: il parente povero dell’Islam.
Il Colonnello lo sa. Anzi ne è così
conscio che dopo aver importato i migliori architetti
d’Occidente per tracciare audaci prospettive in questo
gigantesco piatto di couscous spazzato dai venti e centinaia di
artigiani dall’Oriente per ornarne i volumi ancora freschi di
bassorilievi, rosoni, mosaici e vetrate - ha tentato di
appropriarsi della storia dei suoi vicini, con proposte di
matrimonio di un'insistenza patetica, generalmente rifiutate, o
seguite da immediati divorzi.
Arrenditi all’evidenza, Colonnello.
Né la tua bella faccia da antagonista, né il pennacchio dei tuoi
pozzi, né le scie dei tuoi mirage in cieli non tuoi, né
il tuo vivaio di terroristi riescono a trattenere a lungo
l’attenzione del nostro mondo distratto. Una forza centrifuga
maledetta fa svaporare il beneficio dei tuoi misfatti, come
l’acqua dei tuoi ouadi, impedendo alla tua periferia di
trasformarsi in centro. Malgrado i tuoi sforzi, questo paese
resta senza viso, come i tuoi sicari, e senza voce, come in
passato.
A volte, quando il tuo sorriso
gallonato mi sorprende, appeso ad un’edicola, mi congratulo con
te, da lontano, per aver saputo una volta ancora risorgere dal
sabbioso oblio al quale ti condanna il destino. E, forse per
smussare il tuo perforante sguardo, o l’interminabile diga dei
tuoi denti, mentre mi compro con 2.000 lire la tua testa da
adulto, ti immagino bambino, sì, m’invento nostalgie da fratello
maggiore e ti vedo, lupacchiotto di quattordici anni, disteso,
la sera nella tua stanzetta, con l’orecchio al transistor, che
ascolti esaltato la voce di Nasser, il cui carisma saturato ti
arrivava dal Cairo, e ti sento esclamare, fra due incitazioni
del Rais alla guerra santa "anch'io, un giorno, come lui!"
Il tuo sogno: aggiungere un nuovo
capitolo, a tuo nome, nel Grande Libro dell’Islam. Ma Allah è
grande, caro cugino, e nella sua immensa saggezza, deve aver
deciso che era meglio riservare al tuo paese, che fu un tempo il
mio, il ruolo esaltante di “antiporta”, cioè la pagina bianca
che precede il testo, e che tale resta, se una dedica non viene
ad abitarla.
L'unico inconveniente è che tutte
le popolazioni che vi hanno vissuto, nei secoli, hanno subito lo
stesso destino di “cancellazione”. Cominciando dalle minoranze
etniche o religiose, berbere, cristiane ed ebraiche, che
chiamaste dhimmi, cioè cittadini “protetti”. Delicato
eufemismo per dire ostaggi in attesa di conversione. Essere
l’oppresso di un potente offre a volte vantaggi culturali:
catene d’oro, tempo per piangere, ecc. Essere l'oppresso di un
oppresso, nessuno. Ebrei di un paese senza luce, fummo gli ebrei
più spenti del Mediterraneo.
Privi di quel prestigio di riflesso
di cui godono, di solito, i domestici dei grandi Principi, e di
cui godettero, almeno una volta durante il loro esilio, tutte le
altre comunità, la nostra storia fu così negata, sepolta, per
tanti secoli, che senza il libro dello storico Renzo De Felice, Ebrei
in un paese arabo, un libro splendido, voluto con tenacia
quasi mistica da un fratello della nostra comunità, di questa
non resterebbe più, oggi, traccia, né, domani, ricordo. Infatti,
dopo aver assaggiato come tutte le consorelle un menù di
umiliazioni di una varietà squisita: massacro alla romana, alla
mussulmana, alla spagnola, segregazione alla maltese,
all’ottomana, leggi razziali nazi-fasciste, e per finire, pogrom
post-bellici, compiuti dai nostri fratelli arabi sotto l’occhio
dei nostri tanto attesi liberatori britannici, la mia comunità
fu pregata di lasciare il paese l'indomani della Guerra dei sei
giorni, meno i suoi morti, trattenuti per portare il loro
contributo alla Rivoluzione, mediante ossa e lapidi le quali,
debitamente frantumate dai bulldozer, sono servite da base a
un'importantissima autostrada costruita d'urgenza per collegare
il nulla al nulla, e a due giganteschi alberghi per un turismo
tuttora inesistente. Così, io, Ebreo senza più radici né
memoria, ho aperto il libro ed ho scoperto:
·
che la nostra presenza in Libia risaliva a più di 2.170 anni;
·
che precedeva quindi non solo l'invasione araba, ma anche quella
romana;
·
che, bellicosi e fedeli al nostro Dio, contro l’esercito romano
ci eravamo sollevati appena avuta notizia della caduta del
tempio di Gerusalemme;
·
che quella sommossa ci era valsa decine di migliaia di vittime,
ma anche una lapide in latino che riferisce il fatto, e senza la
quale non sapremmo che fummo una così antica e coraggiosa
comunità.
Ma questa è storia, dicevo girando le pagine, storia che fonda
la mia legittimità, ma non basta, io voglio di più, io... io non
sapevo cosa volessi, ma lo trovai.
Un censimento della popolazione ebraica di Tripoli. Il primo
della nostra storia. Effettuato da Giuseppe Toledano, capo della
comunità, nel 1861, e miracolosamente scampato ai falò del
Colonnello.
E cominciarono a sfilare sotto i
miei occhi, debitamente numerati:
1 Rabbino capo, 17 rabbini, 11 studenti e poi tornitori,
droghieri, tavernieri, sterratori, sarti, macellai, scrivani,
chiromanti, levatrici, facchini, donne e bambine, malati e
mendicanti; in tutto: 4.500 abitanti.
Che il professor De Felice sia
ringraziato per questo documento. Avevo finalmente sotto gli
occhi la prova inconfutabile che gente del mio sangue era
effettivamente vissuta, lì, fra le dune e il mare, colmando, di
generazione in generazione, la mitica voragine che separava
nostro padre Abramo da mio nonno, Abramo anche lui. Certo non
erano i poeti, matematici, filosofi e medici che fiorivano i
giardini della Spagna mussulmana, e curavano i mal di testa dei
califfi illuminati, ma era pur sempre la mia famiglia, o
perlomeno il perimetro sociale entro il quale senza dubbio
alcuno, si era mossa. Mi misi dunque a trascrivere questa lista
a mano, sicuro che uno dei miei sarebbe passato, presto o tardi,
sotto la mia penna. E questo modesto rito bastò a far si che il
vapore dei ricordi si condensasse dietro ai miei occhiali, che
si mettesse a piovere, a distanza, su quella striscia di asfalto
dove i miei morti giacevano prigionieri, che questa scoppiasse,
che un albero ne uscisse, coronato di foglie, popolato di
uccelli.
Il mio albero genealogico, per
approssimazione.
Chi potrà più dire l’odore delle
pelli e la loro lucentezza, ai tempi in cui il sapone si
chiamava olio di mandorle? La magrezza indiana dei bambini, il
carbone dei loro sguardi, quel modo così arabo di essere ebrei
che avevano gli ebrei di Trablous. Donne prosperose o gracili,
vestite di sete rigate, cangianti, la vita cinta in quadroni
d'argento, le teste avvolte nei foulards i quali, scivolando
cento volte al giorno sulle loro spalle, scoprivano capigliature
corvine o rosso hanna,
e ondulate come il mare visto dai terrazzi. Odore di
cammun, di
felfel, di
atar e gelsomino,
fiori e febbri, spezie e sudori, correnti d'aria fritta o di
orina nei cortiletti di quel dedalo scalcinato che era la
Hara, il nostro
ghetto. E i turbini di mosche intorno agli occhi degli asini
fatalisti, la polvere di
loukhoum sul naso dei bambini buoni, e i capretti appesi nei
giorni di mercato, le montagne di cipolle viola, di datteri
lucenti, di peperoni dai colori fluorescenti; e i polli che
venivano comprati vivi, e portati via tenuti dalle zampe, come
mazzi di fiori, per essere uccisi in casa, secondo le regole, in
fondo ai giardinetti miseri - due gerani, un ramoscello di
menta, un oleandro, la cui acida linfa, ad ogni fiore colto, vi
si attaccava alle dita.
Chi potrà più raccontare la
severità, la misericordia, dei nostri vecchi barbuti, in
turbante, Fez, Bertila o Arrakyia, secondo l’epoca, dottori
della legge dalle mani nodose, dalle unghie di corno, dalla
pelle scavata dal tempo, ceppi della fede giudaica ancorati,
loro malgrado, in questa terra tanto più amata e tanto più
esiliante che somigliava troppo alla patria perduta: come una
lacrima a una goccia di pioggia.
Divina monotonia del cielo azzurro;
stesse palme trionfali cariche di munizioni d’oro, stessi
tramonti rapidi, che insanguinavano di sole morente i
talleth dei nostri
padri, riuniti a dieci per la preghiera della sera, sui balconi;
stesse notti crivellate di stelle, stelle cosi vicine che il
canto dei grilli sembrava la loro voce; notti di rugiada, che
facevano gonfiare i cocomeri a scatti, imitando il gracidare dei
ranocchi; albe di madreperla che li vedevano già in piedi, i
nostri vecchi, con gli occhi di uva passa, a volte di uva verde,
volti a Gerusalemme, per rendere grazie al Signore di questo
nuovo giorno, che autorizzava loro a sperarne un altro e un
altro ancora fino al giorno tanto atteso del ritorno alla Terra
promessa; sposando, giudicando, benedicendo e morendo in
quell’attesa - mai completamente però, perché i loro figli,
messi al mondo in quantità prodigiose (se non sono io, saranno
loro, se sono tanti, uno vivrà, se sopravvive avrà dei figli e
dagli occhi di uno di loro, finalmente, vedrò il muro.
Paradossalmente, questa razza di individualisti non si considera
come alberi di una foresta, ma come foglie di un medesimo
albero, e, precisamente, la palma: ogni foglia è figlia e madre
del tronco, ed è grazie a quelle che muoiono che l'albero
cresce) perché i loro figli, dicevo, messi al mondo in quantità
prodigiose, davano loro il cambio, prendevano cioè lo scialle e
il Libro e si mettevano a vivere, pregare, procreare e morire a
loro volta in attesa della partenza.
Ma di cosa si lamenta? Dirà il
Colonnello sotto la sua tenda. Voleva partire, l’abbiamo
lasciato partire. Certo, ci hai perfino incoraggiati a farlo,
spogliando i pochi pazzi, ancora attaccati alla loro terra, dei
loro beni e dei loro diritti. Ma stai tranquillo, non è per
nostalgia che ti scrivo. Non faccio parte di quei poveri
infelici che per rivivere la loro infanzia tripolina vanno a
passare le vacanze a Tunisi. Perché se c'è qualcosa che rifiuto
di assumere, è proprio la catastrofica illusione della
somiglianza, cioè, quella distanza, infima eppur vertiginosa,
che separa la lacrima dalla goccia di pioggia, esattamente come,
quando, perduto in un
souk, cerchi tua madre, la vedi, urli il suo nome, si gira e
non è lei. Io, quando la chiamo, si gira ed è sempre lei:
Gerusalemme, e quando voglio, ci vado.
Se ti scrivo, è per dirti che la
nostra comunità è viva, che cresce e prospera, che si è
rifatta, hamdullah. Perché avendo perso tutto non aveva
altra scelta se non avanzare. Noi siamo come le api, Colonnello,
se il padrone del campo ci ruba il miele a Settembre, lo
rifacciamo in fretta, prima dell'inverno, e se continuiamo a
punzecchiarti con le nostre richieste di risarcimenti è meno per
interesse che per dignità, per ricordarti il tuo debito ma
soprattutto la tua perdita. Siamo produttori di beni, materiali
e morali, lo siamo sempre stati e tu lo sai, perché il lavoro
non ci fa paura, perché il lavoro per noi non è mai stato
punizione, bensì espressione, anzi, benedizione. La prova, dopo
un mese nei campi-profughi di Latina e Capua, i nostri hanno
abbandonato le baracche e sono partiti in cerca di lavoro, e
l’Italia, che dandoci rifugio e cittadinanza ha creduto di farci
la carità, si è ben presto accorta di aver fatto un
investimento. Tu invece, come tutti i governanti del nuovo mondo
arabo, hai voluto lavar via gli ebrei dal tuo tessuto sociale.
Ne hai corroso le fibre: commercio, artigianato, agricoltura,
professioni liberali, tutto si è dissolto, è volato via come
sabbia nel Ghibli e tutta l’esperienza che comprate
all’Occidente non potrà sostituire l’esperienza antica che
avevamo noi di voi, noi, la cui vocazione è stata, da sempre, la
comunicazione: fra gli esseri, i gruppi, le etnie, le
discipline, i principi, gli stati, le civiltà. Vocazione che fu
indispensabile alla grandezza dell’islam, dell’impero russo, di
quello ottomano, della Germania prenazista, e che avrebbe potuto
fare la tua, se tu l’avessi voluto. Pensa, cugino, era nato
perfino un trovatore su questo pezzo d’inferno che governi. Con
l’amore inspiegabile, quasi perverso degli ebrei per le terre
matrigne che li hanno adottati, avrebbe potuto fabbricare ali ai
tuoi re, ai tuoi eroi, ai tuoi santi e martiri per mandarli a
dire al mondo che il tuo paese esiste. Avrebbe potuto cantarlo,
il tuo deserto, con parole che avrebbero fatto cadere in petali
questa rosa delle sabbie che hai al posto del cuore.
Ma Allah, che è grande e vede lontano, ha voluto, per tua
mano, farci partire, affinché io andassi a cantare i miei
canti sotto altri cieli, e che la tua nazione potesse
proseguire, come in passato, il suo esaltante compito:
essere la pagina vuota del Grande Libro dell'Islam.
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